vissi d’arte

Nello scorrere di questa lunghissima pagina ci sono alcuni dei testi recenti che ho scritto per artisti, mostre, cataloghi d’arte, libri; sarebbe stato impossibile contenere oltre dieci anni di testi critici e di accompagnamento. Quelli qui raccolti sono rigorosamente in ordine non cronologico e selvaggiamente sparso e vogliono solo essere un piccolo contributo ad archiviare e proporre alcuni dei talenti dell’arte contemporanea in Sardegna.

Sole – Cercasi Cenerentola

progetto narrativo/fotografico di Giacomo Pisano

Un dettaglio per il tutto, la sineddoche.

Partendo da questo concetto ho pensato la mostra SoleCercasi Cenerentola, una serie di foto realizzate da me che catturano nel particolare della scarpa abbandonata un più ampio significato. C’è un gioco sulla parola sola/sòla (scarpa) e anche il voluto utilizzo del termine sole, elemento tipico e tanto amato della nostra città che in parallelo reca anche un rimando alla solitudine.

Le immagini, non costruite né manipolate, non documentano periferie disperate ma angoli centrali della città, spazi pulsanti di realtà quotidiana, dove questi oggetti muti reclamano attenzione. Non sono un fotografo, non mi interessano la tecnica e l’aspetto artistico ma, in tal senso, sono piuttosto un narratore che raccoglie storie (o tenta di percepirle) per raccontarle.

Chi ha camminato, corso, sognato in queste scarpe ad un certo punto del percorso se ne è disfatto lasciandole come memento per chi passerà e saprà guardare con i giusti occhi.

I loro involucri vuoti e inanimati rappresentano una vita che si è espressa ma non c’è più, un trascorso non necessariamente tragico ma comunque simbolo di incuria verso se stessi e gli altri. Ed è come se questi oggetti conservassero parte di quella traccia vitale, come se anelassero ad essere scoperti, riconosciuti e in qualche modo salvati dall’oblio con un ultimo sforzo disperato, operato nell’essere visti.

La desolazione insita nelle foto è più narrativa che visiva: squarci di architetture monumentali, aree residenziali o giardini, semplici marciapiedi diventano inconsapevoli palcoscenici per un ballo concluso prima che inizi, storie e vicissitudini che possiamo solo provare ad immaginare.

L’urbano mostra la sua seconda faccia, un suburbio ben nascosto sotto intonaci incipriati di fresco e angoli verdi pieni di speranza. Una città Cenerentola che rivela anche il brutto, lo sporco, il degrado tramite piccoli segni, campanelli d’allarme, residui di una magia venuta male.

L’umanità avanza nella vita lasciando impronte inequivocabili della propria decadenza, la scarpa ne è un chiaro emblema per sua stessa natura, artificio creato dall’uomo e strumento atto al camminare.

Quale sia la direzione di questo cammino a noi è negato di saperlo.

 

Giacomo Pisano

Ermenegildo Atzori “Phantasmata”

Ermenegildo Atzori, artista poliedrico in bilico tra la fascinazione per la natura e la decadenza industriale, ci presenta un nuovo concept utilizzando materiali inusuali rispetto ai lavori precedenti, con un risultato sorprendente. I supporti plastici segnati dalla grafite e dal pastello sono sovrascritti con linguaggi, cifre, immagini, mondi interi che si dipanano agli occhi di chi osserva. Composizioni aeree, leggere, volatili si affiancano a linee i cui grafismi ricordano planimetrie e progetti in cui fanno possiamo riconoscere, talvolta, architetture ben definite, forme antropomorfe, zoomorfe e fitomorfe.

Ed è qui che comprendiamo il senso di Phantasmata, qualcosa che sfugge all’immagine realmente tangibile, fisica, ma che ne è proiezione fedele e che ci è dato cogliere per qualche attimo prima che scompaia. Phantasmata è il vuoto tra le cose e le figure delle cose, è l’immaginario, il non detto, l’invisibile.

La scelta del bianco e nero non impone una prospettiva precisa, per cui i lavori possono essere letti su piani differenti. In questa linearità rigorosa riconosciamo gli elementi:  la terra nella grafite minerale, l’aria nelle campiture bianche che fanno pensare a venti docili e meno docili, il fuoco nel colore nero – quello della terra bruciata – e l’acqua la cui proprietà mobile è conservata nelle sbavature volute e ricercate, nei trascoloramenti ragionati eppure istintivi.

Questi tagli grafici, neri e profondi come incisioni, sono varchi temporali, elementi fisici, proiezioni di ombre del reale e immagini oniriche. Ci sono lettere che talvolta si ricavano un angolo tutto loro e segni che sono simboli, e che parlano il linguaggio cifrato dei significanti. Ci sono le geometrie e lo stravolgimento di esse. C’è la sintesi di Antoni Tapies  in questo percorso che è Natura in senso ampio, in senso antropizzato. Sono visioni dall’alto, a volte, come mappe di geografie umane in cui strutture, visi e piante si mescolano indissolubilmente per divenire un’unica cosa in movimento. Niente staticismo infatti, così come la scelta del bianco e nero nulla sottrae alla prospettiva lineare o aerea, anche il dinamismo è evidente in queste composizioni. L’apparente semplicità grafica nasconde singole azioni vibranti ottenute mediante grande sforzo fisico da parte di Atzori e che portano come risultato un fermento quasi palpabile.

Le tre sculture essenziali sono coerenti con il lavoro grafico, disposte a triangolo, simbolo alchemico della fiamma che tende al cielo. Incarnano l’arte, le sue aspirazioni, e traducono nella materia, la volontà dell’autore di elevare lo spirito. Ci sono il concretismo di Joseph Beyus, un richiamo a Pinuccio Sciola e la rude bellezza di Cy Twombly in queste opere agili ed eleganti, ma anche una lettura della Natura poetica e commovente.

Materia e spirito si fondono ancora una volta in un segno.

Giacomo Pisano

foto-locandina-roberto-pili-copiaRoberto Pili    “Stato Migrante”

Se l’obiettivo di un fotoreporter è quello di raccontare storie attraverso le immagini Roberto Pili ha risposto pienamente alla chiamata che la sua professione esige.

In questo ampio reportage ha voluto immortalare i tanti sbarchi di migranti che si son susseguiti a Cagliari dal 2011 fino alla cronaca più recente. Non un lavoro inteso come semplicemente compilativo ma da interpretare come un viaggio in parallelo al popolo delle acque, un occhio attento e imparziale che osserva e riporta il susseguirsi degli eventi, la “macchina dell’accoglienza”, la gestualità.

Gestualità che mai appare stereotipata e costretta dalle convenzioni inevitabili che seguono lo sbarco a terra dei migranti: primo soccorso, controllo sanitario, identificazione e trasferimento. Le fotografie di Roberto Pili mantengono intatti il piglio del reporter e il dovere di cronaca ma restituiscono anche tutta l’umanità delle anime e dei corpi provati dal viaggio: può essere l’impercettibile tensione di un piede nudo così come uno sguardo profondo e pieno di parole non dette.

Il fotografo guarda aldilà delle scelte politiche, delle posizioni personali, delle opinioni di strada e presenta la realtà senza artifici e senza indulgere in un sentimentalismo che spesso non basta a suscitare l’empatia di chi osserva, l’occidentale pronto a giudicare e spesso dimentico dei sui fratelli di sangue volati negli Stati Uniti, in Belgio, In Germania, In Inghilterra a cercare di conquistarsi una vita migliore.

Non è questo il caso: le foto raccontano la realtà dei migranti nelle azioni che regolano la loro vita una volta soccorsi nelle acque del Mediterraneo, dalle immediate ore che seguono l’arrivo fino alla loro quotidianità nei centri di accoglienza e nelle strade della città, con un intento documentario quasi didattico, per istruire con chiarezza chi non sa e immergerlo realmente nella paura, nello smarrimento e nella speranza di questi viaggiatori senza patria.

La scelta del bianco e nero si rivela efficace sia per l’aspetto giornalistico che per quello narrativo perché aiuta a fissare il concetto e raccontare il dramma nella sua interezza senza le inevitabili distrazioni del colore.

Non ci sono parole nuove per descrivere l’odissea dei tempi moderni, né forse può esistere un’immagine così forte da scuotere il torpore e destare l’attenzione se non per qualche attimo. Va lasciato alla capacità di ciascuno di testimoniare consapevolmente e documentare l’epoca di transizione che viviamo, diventando portatori di contenuti da condividere e perseguendo ideali di uguaglianza, rispetto e civiltà da raggiungere, consolidare e garantire a tutti.

Il prezioso lavoro di Roberto Pili ci aiuta a verificare le notizie, a raccogliere informazioni da trasmettere, a dare un volto e una voce, seppure muta, ad una moltitudine di vite trascinate dagli eventi e destinate all’oblio se non tutelate con ogni mezzo a disposizione, primo fra tutti la nostra coscienza.

Giacomo Pisano

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Pieces

Fabio Piccioni

Il fotografo di Olmedo ha la capacità di trasformare in suggestive storie singoli frammenti di vita e ci suggerisce percorsi di inaspettata bellezza.

Attraverso l’obbiettivo la Natura viene indagata con rispetto e devozione così come lo spettro delle emozioni umane rappresentate dalle figure femminili che si inseriscono nei paesaggi di Piccioni con delicato languore.

La donna è parte dello spettacolo naturale e ne diviene simbolo senza indulgere sull’aspetto estetico quanto invece assurgendo a icona. Il segno dell’uomo sull’ambiente è leggero, armonico, discreto e mai invasivo. La forza di queste immagini risiede nella capacità di parlare silenziosamente, senza mai gridare.

Fabio Piccioni è capace di farci immaginare mondi lontani seppure a portata di mano. Una realtà velata di sogno quella di Pieces, che richiama i pittori Romantici e certe suggestioni care ai Pre-Raffaelliti per quanto riguarda la gestualità.

La composizione è sempre equilibrata, la figura umana non è marginale neanche nelle immagini in cui appare dimessa rispetto alla grandiosità della Natura, emerge da sfondi impareggiabili grazie al sapiente gioco di luci e ombre, al quale è anche affidato l’aspetto emozionale.

Pieces è il risultato di un lungo lavoro di ricerca non solo sugli aspetti naturalistici che tanto affascinano e impegnano il fotografo, che si dedica da tempo sia al reportage sui luoghi dell’archeologia industriale e dell’architettura urbana sia alla fotografia subacquea e in grotta, ma anche agli insondabili misteri dell’animo umano, esplorati con sobria e discreta eleganza nel ritratto.

La fotografia è il mezzo che Fabio Piccioni ha scelto per esprimere la sua sensibilità e condividere con noi il suo particolare sguardo sul mondo, veicolando la vita per consegnarla all’eternità, intrappolando momenti destinati a lasciare il segno.                                                                       

                                                                                Giacomo Pisano

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Massimo Pompeo “Ex Tabulis Maritimarum”

Personale e universale.

Questa è l’opera di Massimo Pompeo, artista di Latina attivo dagli anni ’70 che fin dal liceo artistico dove si forma tecnicamente sotto l’egida di Leo Guida, vanta un percorso di crescita con maestri memorabili come Antonio Virduzzo.

 Il primo amore, per così dire, è stato verso una forma d’arte antica, a lungo e a torto considerata minore, l’incisione. Fin da giovanissimo, grazie ad una dedizione e ad un entusiasmo mai venuti meno, Massimo Pompeo ottiene risultati eccezionali sia tecnicamente che da un punto di vista della ricerca e del concept. Una perizia tale da portarlo a creare un suo modo di incidere che consente sovrapposizioni di segni calligrafici e piccoli interventi di colore per conferire profondità e robustezza alla composizione.

Il suo iter artistico si compone di tappe importanti: l’Accademia  e gli studi, l’esperienza in Spagna, l’insegnamento, la sperimentazione dei materiali e delle tecniche ma anche la personale ricerca in ambito concettuale.

Sensibile e attento, nelle grafiche riscopre il potere del nero affidandosi ad una monocromia profonda. Il nero contiene tutto lo spettro cromatico ed è denso di significati. Nera è la terra gravida di vite descritta nella Bibbia ed è anche il colore della dimensione spirituale. Il tratto è quasi calligrafico, il segno diviene linguaggio cifrato, a volte interpretabile altre misterioso ed ermetico. Evidente è la sua attitudine ad utilizzare tutto lo spazio disponibile ma con una precisa distribuzione degli elementi pieni senza dimenticare i vuoti, con un’eleganza dimensionale vicina a Lucio Fontana.

L’afflato spirituale nel suo fare arte è fondamentale quanto la competenza. Se già nelle grafiche certi colori possono essere associati alla mistica questo aspetto è maggiormente espresso nella serie Itinerarium Animae, pitture dalla forma inequivocabilmente legata al mondo del sacro. A partire dai templi domestici dei numi tutelari dell’epoca romana fino ai trittici di tradizione sacra le sue edicole accolgono elementi immaginifici e ieratici. Gli ossidi e i colori si mescolano in un amalgama dal sapore alchemico tanto antico quanto contemporaneo. Le linee pulite di queste opere tridimensionali al limite dell’installazione contengono elementi terreni, come la paglia e il tessuto ma anche spirituali come lo specchio, medium magico, simbolo delle attività divinatorie e portale verso mondi lontanissimi. Dalla cromia emergono segni pregnanti di memoria ortodossa e bizantina: il cerchio, il triangolo ascendente, la croce. Recuperando un’esperienza come land artist inserisce materiali della sua terra d’origine in queste stele impreziosite da lamine in rame e argento che divengono omaggio all’agro pontino e insieme offerta di bellezza, muovendosi su un doppio binario che vede tradizione e contemporaneità viaggiare in perfetto sincrono.

Il mondo è materia di indagine profonda anche nel suo ultimo concept Ex Tabulis Maritimarum, mappe geografiche su cui interviene con l’uso del colore e della calligrafia. Il potere cromatico e quello della parola scritta rendono l’esperienza artistica sia personale che universale, come si è detto all’inizio, coinvolgendo lo spettatore in un viaggio che è si intimo ma nel quale si può facilmente riconoscere. Anche in queste opere il segno grafico è una componente essenziale per restituire una dimensione propria ad una composizione aperta. L’introspezione diviene elemento attrattivo per chi osserva e mezzo di immedesimazione. La calligrafia può essere vista anche come sovrascrittura, percorsi in sillabe su itinerari geografici universalmente riconoscibili. L’artista, in occasione della mostra presso il centro Comunale d’Arte e Cultura il Lazzaretto di Cagliari ha realizzato alcune tavole dedicate alla Sardegna, lambendo il capo nord dell’Isola ma anche il territorio cagliaritano di Calamosca, dove sorge il Lazzaretto.

I confini non esistono, raggiunti e invasi dalle campiture di colore segnano nuove tracce toccando luoghi cari a Massimo Pompeo, mari e terre emerse divengono un unicum emozionale, una pangea che unisce informazioni come rubate da un taccuino di viaggio o un diario di bordo a cifre simboliche che arricchiscono il lavoro di significato e ricerca formale.  L’aspetto estetico, quello che canonicamente viene definito bello, è in perenne cambiamento nella nostra epoca e in continua discussione: la bellezza e l’equilibrio di questi lavori risiedono nella solidità del concept, nella poetica e nell’inevitabile componente di attualità che la permea, dovuta all’emergenza dei migranti in Europa e nel mondo, ma anche ad una compostezza senza tempo.

In questo modo l’artista si riappropria anche del ruolo di osservatore sociale che gli intellettuali per secoli hanno incarnato, ma sempre più spesso trascurato, operando a suo modo una denuncia silenziosa ed elegante ed invitando alla riflessione.

Giacomo Pisano

Fabio Costantino Macis

Fabio Costantino Macis “Tra la Terra e il Cielo”

L’intento originale della fotografia era quello di raccontare la realtà con un valore documentario, quasi didattico. Il tempo, l’estro e la necessità di ampliare questo racconto facendo si che maggiore attenzione fosse dedicata all’indagine della sfera dei sentimenti, hanno mutato la foto da documento in progetto artistico.

Fabio Costantino Macis è un grande osservatore della realtà contemporanea della quale narra limiti e virtù con occhio elegante e attento, ma si rivela anche affascinato da atmosfere oniriche che poco hanno a che vedere con il nostro quotidiano. La galleria di ritratti in mostra è un invito ad evadere dall’ordinario verso orizzonti interiori differenti, la composizione diviene visione e viceversa.

La Natura è elemento fondamentale del concept: non è una scelta romantica quella di ritrarla in modo così importante ma solo la necessità di trovare uno spazio in cui sia possibile per l’uomo raggiungere la catarsi. Sogni e traumi si liberano nel gesto estatico dell’ascensione e raggiungono una dimensione altra. Allentate le catene mortali i corpi vibrano di dinamismo e lo spirito si astrae per osservare le cose da un altro punto di vista.

Fabio non è un sognatore che spicca il folle volo, ma guarda oltre le cose con sobria moderazione: i protagonisti dei suoi scatti fluttuano a poca distanza dalla terra e dal mare, dagli elementi certi della fisicità a cui si dovrà tornare, senza rifiutarla o allontanarsene eccessivamente e questo li rende straordinari e comuni al tempo stesso.

Sono attimi di distacco, abbandono meditativo, frammenti di tempo destinati ad esaurirsi lasciando un’eredità di consapevolezza in cui ci riconosciamo o vorremmo riconoscerci. Sono piccole rinascite in un ciclo vitale i cui vincoli avvertiamo stretti, sono le mille costrizioni che stratificano l’uomo ergendo mura che solo per qualche istante possiamo infrangere raggiungendo piani diversi e ariosi.

La capacità di trasmettere questa sensazione di leggerezza è un dono, cosi come la sensibilità per narrare storie con pochi movimenti e tanto non detto. Il fascino di queste immagini risiede proprio in ciò che non sappiamo, sia esso passato, presente o futuro. Non conosciamo il peso tolto dalle spalle dei protagonisti di questi scatti, ne supponiamo le sofferenze e i dubbi, ne intuiamo le gioie, le aspirazioni.

Viviamo con loro l’entusiasmo dello slancio, certi della possibilità di astrarci dallo spettro delle emozioni terrene per un qualcosa di indefinito e soave, anche se solo per un momento e anche sapendo che la ricaduta è legge inesorabile per l’uomo. Conserviamo il ricordo dell’esperienza e ne nutriamo la memoria per ingannarci quanto basta e cullarci in questa illusione di amniotica felicità.

Giacomo Pisano

Fabio Costantino Macis

Gli spiragli luminosi come filtrati da un tessuto, rivelano personaggi avvolti in un’ombra densa, morbida e quasi palpabile. C’è un gusto estetico spiccato che sovrintende la composizione che comprende gli elementi naturali terra, aria, acqua e poi l’uomo, colto in un languore consapevole ed assorto. Una calma non priva di tensione però, che si coglie nel gesto e nell’espressione. Questo concept ideato con grande equilibrio ricorda la riflessiva ed estatica pittura preraffaellita, in particolare le figure di Sir Lawrence Alma-Tadema. L’elemento di citazione infatti non è mai gridato e l’opera si presta ad una lettura a più livelli, acquisendo ulteriore valore e traendo forza dalla sua stessa capacità di evocare un silenzio vigile.

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Lo specchio oscuro
personale fotografica di Francesca Randi e Alessandra Baldoni

“Lo specchio oscuro” è il percorso fotografico creato da Francesca Randi e Alessandra Baldoni. Già dalla scelta del titolo ci immergiamo in un’atmosfera di magia e misticismo: lo specchio è simbolo magico per eccellenza, riflette la nostra immagine inchiodandoci alla realtà ma si dice sia come un ponte per altre dimensioni, spazi ultraterreni e occulti in cui l’uomo vaga in cerca di verità nascoste muovendosi tra inconscio, ricordi e proiezioni.
La mostra dà voce alle fantasie e soprattutto agli incubi che scavano nella psiche dell’infanzia con uso del bianco e nero che non ha solo una semplice, per quanto ricercata valenza artistica, ma è fondamentale per guidarci in una dimensione introspettiva e accentuare la drammaticità e la profondità delle scene e dei significati raccontati. Le due fotografe hanno scelto un tema loro caro e lo hanno indagato in modo simile ma seguendo iter personali e attingendo alla memoria soggettiva e collettiva.

Francesca Randi, fedele al suo stile, lavora su soggetti di cui esalta l’innocenza costruita, quasi fossero delle maschere, in modo da far emergere un’inquietudine latente, un lato oscuro. Immagini scaturite da un buio profondo che hanno il pregio dell’universalità. Vediamo il bambino che tiene in mano i serpenti, un ricordo dell’infanzia ma in cui aleggia, come una citazione, la setta religiosa americana che usa i serpenti velenosi per i suoi rituali e li maneggia come atto di fede. La donna che tiene la gallina sul viso che fa pensare ai riti della santeria e si riallaccia al ricordo della nonna. Accanto a queste visioni fortemente intrecciate tra memoria e suggestioni religiose ci sono immagini che attingono ai giochi infantili, alle esplorazioni e ai sogni in modo altrettanto disturbante: le bambine sulla spiaggia di notte e il ragazzino avvolto nel mantello che sembra invitarci a seguirlo in un bosco. La Randi include anche due figure femminili colte in una sorta di estasi che nulla ha di salvifico e che conserva invece un’impronta spettrale e senza tempo.

Alessandra Baldoni si affida allo sguardo innocente di bambini non ancora ragazzi per la sua narrazione carica di riferimenti nefasti. Spiccano i due omaggi ad Arthur Tress, misterioso fotografo che fu tra i primi ad utilizzare il corpo come mezzo per veicolare la paura. Il ragazzo dalle mani e piedi di paglia appare sereno nell’esibire la sua deformità così come il bambino che posa nel campo di granturco devastato con alle spalle un uomo incappucciato. Conserva tutta la sua capacità di inquietare anche la donna in tunica bianca sdraiata nel bosco e osservata da figure irriconoscibili per via delle maschere che indossano, in una sorta di voyeurismo malato e spaventoso. La scelta non è casuale: la maschera è quella del cerusico, il medico della peste, che dopo secoli mantiene intatto il suo carico di ancestrale e insita minaccia. Nelle fotografie della Baldoni sembra essere lo sguardo l’elemento dominante per veicolare disagio. L’insieme trasmette un’inquietudine che trascende lo spirito per divenire quasi fisica.

Le due artiste indagano l’incubo scavando nella psiche come archeologhe dell’onirico, riportando a galla piccole e grandi ombre, esponendo un terrore quasi fiero nei “teatri dell’orrore” che costruiscono con i loro set. L’amore per la ricostruzione, per le simbologie velate o rivelate, regalano a chi guarda un’emozione vera. Riprodurre il falso per raccontare una verità. Questo è il senso del percorso visivo di Francesca Randi e Alessandra Baldoni. Un mondo di voci dimenticate, ricacciate nel buio da cui scaturiscono ma capaci di emergere con tutta la loro forza.
Giacomo Pisano

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DIVERSAMENTE MIGRANTI
Mostra fotografica sulla migrazione sarda attuale nel mondo, a cura di Giacomo Pisano
 
Non viaggiamo stipati in barconi ma fuggiamo dal nostro paese con lo stesso bagaglio di sogni e incertezze di chiunque altro. Non facciamo cronaca come gli Africani ma, come loro, andiamo a “rubare” il lavoro a Inglesi, Francesi, Tedeschi, Americani, Olandesi, Giapponesi: siamo i migranti sardi, andiamo all’estero in cerca di qualcosa che ci faccia sentire bene. Si cambia lingua, si lasciano i punti di riferimento ma generalmente ci si integra perfettamente nel nuovo ambiente nonostante il ruolo di migranti. E allora perché il fenomeno delle migrazioni nel Mediterraneo spaventa e viene facilmente strumentalizzato?  Noi nasciamo liberi cittadini del mondo, viaggiamo con l’aria condizionata e una valigia di vestiti puliti; chi parte dall’Africa e dal Medio Oriente, sempre che riesca ad arrivare a destinazione, si porta dietro solo un bagaglio di disperazione: chi sfugge alla guerra civile, chi alla fame. La paura verso questi migranti non deve farci dimenticare i nostri, un flusso ininterrotto nel tempo: i minatori in Belgio, gli sfollati in America e i meridionali che salivano al nord per lavorare in fabbrica. Eppure oggi, nonostante gli strumenti culturali in nostro possesso scegliamo di non capire le difficoltà altrui. La galleria di autoritratti fotografici proposta è un monito a non dimenticare che la diversità è motivo di crescita, e che in una massa confusa di corpi in viaggio ci sono anche i nostri figli, le nostre sorelle, i nostri amici e ci siamo noi. Senza cedere a sentimentalismi facili e senza toccare considerazioni di tipo politico, si vuole solo ricordare che la migrazione, seppure diversa, è storia universale, non conosce razza, religione, territorio ma solo la volontà di migliorare la propria vita che è un diritto. E i diritti devono essere di tutti oppure non possono essere chiamati tali.

Intervento per le giornate del FAI

Renzo Piano - il CIs a Cagliari; foto tratta da www.sardegnacultura.it

Connessioni
Una città è fatta di fondamenta, monumenti, abitazioni, strade.
Strade che si incrociano e intersecano per abbracciarla nella sua interezza.
Ma una città è fatta soprattutto di individui.
Di persone che cambiano gusti, modo di pensare, abitudini, che cambiano la loro economia e le prospettive perché il cambiamento è insito nella natura umana.
L’architetto Renzo Piano lo sapeva molto bene quando nel 1985 partecipò e vinse con il progetto Phoenix il concorso internazionale “Una piazza per Cagliari”.
L’interesse intorno a questo bando fu tanto e i progetti vennero anche raccolti in un volume che contiene i più interessanti e vennero anche allestite mostre alla Cittadella dei Musei e in seguito a Roma e a Venezia.
Il prestigio e la lungimiranza di Renzo Piano gli consegnarono la vittoria e l’onere di realizzazione, completato nel 1992.
L’architetto ha anticipato le polemiche, puntualmente sollevate, sull’eccesiva modernità di Phoenix e sull’azzardo di linee così innovative in un contesto tra i più antichi di Cagliari. L’area infatti è abitata fin da età punica con continuità d’uso pressoché ininterrotta.
Renzo Piano lo sapeva e quindi ha scelto materiali moderni come acciaio e vetro da affiancare ad un tradizionalissimo biancone tirreno, una pietra calcarea proveniente dalla cave di Orosei utilizzato anche per l’adiacente cimitero monumentale di Bonaria e per il Municipio. Nel suo intento c’è il senso della continuità oltre che la proiezione verso il futuro, c’è la volontà di creare una trama nel tessuto urbano in grado di unire tratti importanti della città.
Dispendioso – tra le polemiche mosse – intelligente invece. Per quei tempi l’edificio era uno dei cinque concepiti meglio in tutto il mondo e rispondeva ad esigenze non immediate ma di prossima manifestazione. Spazi interni mobili, flessibili, in grado di adattarsi, materiali eco compatibili, una coibentazione perfetta, luminosità naturale massima e conseguente risparmio di energia elettrica.
Argomentazioni oggi basilari nei campi dell’architettura e dell’edilizia, e della bio-edilizia, sapientemente anticipati da Piano.
Le modifiche al progetto originale non impedirono comunque la realizzazione di una struttura che da subito venne concepita con una parte privata ed una aperta al pubblico. Al suo interno infatti oltre agli uffici del Credito Industriale Sardo esistono spazi adatti per workshop e conferenze e un ampio auditorium.
E’ necessario quando si crea un edificio che esso permetta ai cittadini di riconoscersi, che li accolga e che sia comprensibile in modo che, qualora fosse necessario, gli stessi cittadini si battano per difenderlo. Vale per l’antico e vale per il nuovo perché la storia di una città è una riscrittura continua e ciò che oggi è quotidiano e contemporaneo sarà monumento di valore storico artistico domani.
L’architetto Renzo Piano avevo previsto quasi ogni cosa. Quasi.
Infatti non poteva immaginare che ci sarebbe stata una profonda e terribile crisi economica e che i simboli più discussi della crisi dei nostri tempi, le banche, avrebbero operato in una piazza che il Comune di Cagliari ha dedicato in modo riconoscente – ma con gli occhi di oggi innegabilmente ironico – ai donatori di sangue.
Giacomo Pisano

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Antonio Marras

La tradizione sartoriale e l’omaggio al padre Efisio nella nuova collezione maschile di Antonio Marras 2014/2015

Milano: è la settimana del fashion maschile che anima le stanze della moda e gli atelier trasformati in passerella, migliaia i giornalisti, fotografi, addetti ai lavori e compratori (soprattutto russi) che affollano le innumerevoli location dello stile. Tra i nomi piu’ attesi in calendario nella serata di lunedì c’era Antonio Marras, lo stilista algherese capace di raccontare tanto della Sardegna al mondo utilizando la sua arte come forma di comunicazione. E di arte si tratta, perché nell’atelier di via Cola di Rienzo veniamo accolti dalla performance “13_600 HZ concerto per macchine per cucire” di Sara Conforti: artigiani a lavoro simboleggiano la sapienza del made in Italy, la tradizione sartoriale sempre a rischio perché il mercato privilegia la velocità alla qualità, la serialità all’unicità. Il valore dell’esperienza è invece la base su cui Antonio Marras costruisce la sua collezione maschile 2014/2015 dedicata alla memoria del padre Efisio, nella cui sartoria lo stilista ha imparato a giocare con tessuti, colori e forme. “Mi son ripromesso che se mai avessi ripreso a disegnare una collezione maschile sarebbe stata ispirata a mio padre, alla sua passione per le cravatte, alla cura del dettaglio capace di fare la differenza”. Gli abiti sono mezzo di espressione, pagine narrative in cui mescolare suggestioni che in questa linea si declinano nelle tonalitá del blu, del grigio e del bordeaux con rare concessioni al verde petrolio. Sportivo ed elegante l’uomo Marras accoglie il fascino dei caban oversize di matrice marinara come della maglieria stampata in stile inglese con grande attenzione per le fantasie sempre geometriche, delle cravatte minute annodate su camice bianche in cui é stampata, nella sua stilizzazione grafica, la fotografia di Efisio Marras colto in una posa hollywoodiana, assorto, sognante. La collezione mostra pantaloni in lana, jersey pied de poule in toni di grigio, cappotti di velluto millerighe a micro pois di gusto retró ma realizzati con tecniche moderne come la corrosione. Equilibri cromatici e volumetrici raccontano percorsi di studio, di lavorazioni complesse, di fantasie dal fascino tanto occidentale quanto levantino. Immancabile la firma Marras nel filo rosso cucito negli interni delle giacche, nascosto ma presente come la consapevolezza che quando la moda é frutto di ricerca culturale e rispetto del lavoro e della conoscenza parliamo di etica e non solo di estetica.

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Antonio Marras, collezione primavera estate, Milano, settimana della Moda

Solo trecento fortunati sono stati ammessi questa mattina a Milano alla presentazione della collezione primavera-estate firmata per la settimana della Moda da una delle eccellenze sarde, Antonio Marras. L’architettura minimale e industriale nello show room dello stilista algherese, ruvida eppure elegante, contrasta con la musica barocca e la scenografia verde che invade la sala gremita di pubblico. In questo scenario fantastico l’ensemble musicale delle Cameriste Ambrosiane, fortemente ispirate dal tema della trasformazione tanto da mutare in creature animali munite di becchi e corna, esegue un repertorio classico barocco scandendo il ritmo di quella che sarà una sfilata memorabile. Tante le celebrità presenti: da Natalia Aspesi a Gepi Cucciari, da Licia Maglietta a Filippa Lagerback oltre ad addetti ai lavori noti come Giusy Ferrè, Carla Gozzi, i Murr. Già dalla prima uscita il concept della collezione appare chiarissimo: sono le Metamorfosi di Ovidio, poema in versi del I secolo d.C., ad ispirare Marras nella creazioni di abiti dagli accostamenti azzardati ma mai gridati, in perfetto equilibrio tra sfrontatezza e alta moda. Le modelle come moderne ninfe sfilano coronate d’alloro con capi dalle strutture rubate al guardaroba sportivo come giacconi e bomber accostati alla delicatezza di ruches e pizzi interamente realizzati a mano in Sardegna segnando nuovi confini di bellezza. Ci sono i richiami al viaggio e al sogno tipici dello stile a cui Marras ci ha abituato: stampe dipinte a mano con fiori stilizzati al punto da sembrare geometrie, forme acquerellate in cui si scorgono il carbone e l’acqua. Tanto bianco, nero e sfumature infinite di grigio in capi leggeri, fluttuanti, che richiamano la composta e dinamica eleganza delle pitture giapponesi. Farfalle e fiori color cenere e penicillina alleggeriscono gonne e abiti lunghissimi, dalle trasparenze mai eccessive il cui equilibrio quasi architettonico è spezzato da giacche militari che interrompono le linee morbide e riportano dalla dimensione del sogno a quella della realtà. Forti contrasti anche nei lievi chemisier che ricordano le suggestioni dell’Art Nouveau, impreziositi da sottili lamine argento e completati da borse e scarpe in stile retrò ma perfettamente attuali, con la zeppa, il cinturino, le stringhe. Una novità assoluta è l’uso della vernice, materiale malleabile, aggressivo, contemporaneo mai apparso nel repertorio dello stilista che ritroviamo in giacche dalla struttura solida nelle tonalità cipria, nero e beige. “La mia idea è molto chiara: una donna dinamica, che non rinuncia al dettaglio romantico ma si muove decisa con indosso abiti che raccontano una storia” così commenta Antonio Marras, con la stessa semplicità e coerenza che lo accompagnano fin dai suoi esordi con la linea “Piano piano dolce Carlotta” fino alla direzione artistica della maison Kenzo che lo ha consacrato tra i più amati designer al mondo. Una coerenza e una fierezza palpabili nelle sue creazioni che esportano in tutto il mondo tanto della cultura sarda scevra da folklorismi, esotismi e cliché da cartolina. Trasformazione, leggerezza, contrasto: queste le parole chiave della collezione primavera-estate firmata Antonio Marras. Una dicotomia perseguita attraverso studio e ricerca accuratissimi sui tessuti e cura maniacale di ogni dettaglio perché segno di dinamismo, distinzione e vitalità, ma soprattutto di impeccabile eleganza.

Giacomo Pisano

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“Ulcere Nere”, le visioni grafiche di Andrea Pes

Non necessariamente per fare un viaggio in terre sconosciute è necessario prendere aerei e catapultarsi fuori dalle mete note, a volte basta sapersi immergere in un viaggio mentale, stimolato dalla vista e dall’udito, in grado di traslarci ad una dimensione altra, dove l’ovvio non è ovvio e dove realtà e trasfigurazione si sovrappongono fino a diventare indistinguibili. E’ questo il caso della mostra Ulcere Nere, che contiene anche il concept Nero abbecedario delle nere parole, ambizioso progetto grafico di Andrea Pes, presso il Centro Comunale d’Arte e Cultura Exma di Cagliari. Due sale ospitano i lavori di questo giovane artista che ha davvero tanto da comunicare. L’idea nasce dalla volontà di creare e illustrare un libro sul modello dei vecchi abbecedari scolastici che associavano le lettere a figure immediatamente riconoscibili. Andrea Pes propone la sua interpretazione selezionando parole scomode che riportano a realtà disturbanti, aspetti oscuri della vita, malattia, abbandono. Ad una prima impressione questo taglio noir può far pensare ad un qualcosa di opprimente e inquietante ma la purezza delle linee grafiche e la creatività non banale proposta nel percorso all’Exmà allontanano dalla malinconia dei soli contenuti. La sala che accoglie le illustrazioni dell’abbecedario si visita al buio, con la voce guida di Andrea Pes che non racconta le opere in modo freddo e impersonale, come reciterebbe una didascalia, ma fa in mdo di connettere chi ascolta e guarda, grazie ad una piccola pila, all’opera che ha davanti. Ecco che quindi emergono le motivazioni creative, i riferimenti cinematografici, letterari, artistici. Sfondi che ricordano gli esperimenti di pittura cinetica degli anni ’60, tratti che a volte sfiorano il fumetto, lessico che apre voragini di nuovi contenuti verso cui guardare, e cosa non comune, molti accenni alla vita personale dell’artista. Grande cura di ogni dettaglio nelle tavole in edizione limitata: grafiche raffinate, eleganti, in grado di smorzare i soggetti noir ritratti. Grande equilibrio nelle campiture in bianco e nero che in qualche caso, come nei Cani molecolari rivelano dettagli di colore rosso. Blocchi di colore bianco e nero, monolitici e assoluti si intersecano con segni sottili, particolari minuziosi e tridimensionali. Il senso del dramma aleggia su queste opere ma in modo misurato, mai esacerbato e scioccante mantenendo una dignità formale e contenutistica frutto di ore e ore di lavoro. La seconda sala ospita opere meno recenti ma coerentemente legate per tanti aspetti alla produzione contemporanea di Andrea Pes. Ci sono più colori in questa serie, lavori più vicini al mondo del fumetto d’autore (uno per tutti Ranxerox) e alla grafica pop, ma anche accenni a tecniche particolari come l’incisione nello splendido e originalissimo lavoro Black dog. Accenni ad un raffinato  horror alla Lucio Fulci ne S’accabbadora, La stanza con lo specchio che urla e Voodoo vicine per colore e sensibilità e l’ironia, che sempre si accompagna alla cultura, nelle due tavole di Corsia tumorale. Osservazioni personali, esperienze quotidiane, reminescenze e fantasie si incontrano dando vita a personaggi e storie in grado di conquistare. La mostra si può definire completa sotto molti aspetti, abbracciando un percorso fatto di sperimentazioni diverse sia da un punto di vista tecnico che tematico che soddisfa gli appassionati di illustrazione grafica ma soprattutto lo è da un punto di vista emozionale poichè ha tutto ciò che un’esposizione d’arte dovrebbe offrire: la perizia, la curiosità, la condivisione, il mistero.

Francesco Liori

FRANCESCO LIORI 

Ver Sacrum

Francesco Liori realizza grafiche e illustrazioni per pubblicazioni, riviste, bands musicali. Ha anche una linea di streetwear che porta la sua firma e che ha riscosso consensi a livello internazionale. Il suo stile è un interessante amalgama di elementi, specchio perfetto dei gusti personali: mondo surf e rock’n’roll, icone gotiche, immaginario horror vecchia scuola, cultura metropolitana, passione per il tatuaggio. Nei lavori inediti in mostra, realizzati per la rassegna Vamp, offre uno spaccato delle sue capacità proponendo grafiche di fascino vintage ma perfettamente calate nella contemporaneità. L’artista cagliaritano coglie aspetti della società e li convoglia nei suoi lavori, sempre estremamente fantasiosi ma altrettanto equilibrati, con una attenzione estrema per il dettaglio e soluzioni tecniche innovative. Il mondo del tatuaggio è vicinissimo alla sensibilità dell’artista, che inserisce una profusione di segni e simboli mutuati dal linguaggio della body art nelle sue creazioni, arricchendo di contenuti e citazioni il lavoro e rendendolo più aperto alla contaminazione culturale. Alla base c’è infatti uno studio introspettivo che non tradisce mai il gusto dell’autore ma che si accompagna ad una puntuale analisi delle correnti attuali, delle tendenze e delle passioni della gente, motivo per il quale è molto attivo su tanti progetti diversi. La sua componente pop va intesa proprio in senso sociologico: attento osservatore della cultura di massa, Liori se ne fa interprete senza venire meno al suo background, in qualche modo forzando i confini del mainstream. In Ver Sacrum, concept proposto per Vamp che si ispira al rituale latino inscenato per scongiurare carestie e pestilenze, si gioca sull’ambiguità insita nelle figure dei santi, esemplari e carichi di contraddizione, ieratici e irraggiungibili, che pur immersi in un’aura sacra e misteriosa rivelano dettagli di umana carnalità. Attraverso le icone Francesco Liori racconta sovrastutture e mitologie tipiche della nostra tradizione spirituale senza intenti polemici verso la religione ma con un approccio narrativo. Nelle opere in mostra confluiscono suggestioni cinematografiche e reminiscenze medievali soprattutto con l’accuratezza dei dettagli grafici che riportano alle miniature dei santi. Ver Sacrum ricorda l’idea del sacrificio, che con il Cristianesimo si trasformata in devozione estrema da parte dei fedeli verso i martiri divenuti santi. E del martirio Liori utilizza le iconografie classiche, stravolgendole con un tratto moderno e contemporaneo, sfruttando il potere evocativo dei simboli e il fascino del non detto.

piove a catinelle

PIOVE A CATINELLE-BACINELLE D’ARTISTA

Un’incursione tra pop e camp nel mondo della vita casalinga per eccellenza: il catino, la bacinella, il bacile. Comunque lo si voglia chiamare questo oggetto di forma variabile tra cerchio, rettangolo, quadrato ed ellisse, fa parte della vita di tutti e condividiamo con lui uno dei riti che scandiscono la nostra giornata: fare il bucato. L’antico rituale in origine collettivo, momento di aggregazione sociale e scambio, è diventato un’operazione solitaria, spesso detestata, foriera di malumore e sfoghi domestici. Con questa esposizione vogliamo dare visibilità al gesto e all’oggetto che lo accompagna. Alle persone coinvolte abbiamo chiesto di essere retrò, eccentriche, ordinarie, serie, ridicole, pretenziose e di realizzare con con la fantasia e con ogni materiale a disposizione un oggetto completamente rinnovato che racconti qualcosa del loro mondo e di se stessi. Ridisegnando il quotidiano conferiamo un ruolo nuovo e diamo un sapore inedito ad un utensile altrimenti relegato agli angoli più remoti delle nostre case e destinato all’oblio.Artisti di professione o per l’occasione, casalinghe disperate o felici di esserlo, appassionati di bacinelle e feticisti del bucato sono i protagonisti di Piove a Catinelle, un momento di freschezza nella stagione estiva cagliaritana che coinvolge le professionalità più diverse, perché, indipendentemente dal ruolo che si ricopre, la bacinella è una costante della vita di ogni uomo. Medici, giornalisti, stylist, mistress, attori, tatuatori, architetti, musicisti, scrittori, drag queen, grafici, impiegati pubblici, artigiani, si sono misurati con questo elemento comune regalando spunti di riflessione e momenti di ilarità. C’è chi ha preferito raccontarsi attraverso il proprio lavoro e chi invece ha svelato interi capitoli della propria vita, anche i più dolorosi, regalandoci qualcosa di veramente personale, chi ha scelto di esprimere concetti e chi invece di elaborare gli ingredienti di questa strana ricetta in modo manuale e artigianale.Più volte nel corso della rassegna e con i media abbiamo insistito sul senso di democrazia che ha animato Vamp, arte alla portata di tutti, è fondamentale rendere l’arte comprensibile per stimolare le persone ad avvicinarsi alla cultura senza noia o pregiudizi, e per poterla coinvolgere per la sua salvaguardia. Lo ribadiamo con un’esposizione/gioco che abbraccia professionalità e personalità diverse tra loro ma unite da uno scopo condiviso: trovare il dettaglio che sottolinea le differenze tra le persone ma che ci rende tutti innegabilmente umani.

la ragazza con la pistola. Foto e copyright Daniela Zedda

NUOVE TIPOLOGIE DI RITRATTO

A MAD TEA PARTY, FRANCO CASU, ILARIA CORDA, STEFANO GRASSI, ANDREA LECCA, GIACOMO MACIS, KATIA MAROTTO, STEFANO MATTANA, SILVIA SABA, FIORELLA SANNA e MARJANI ARESTI, MAX SOLINAS, VALERIA SPIGA, SILVIA TADDEI, MARCELLO TREGLIA, DANIELA ZEDDA 

Il ritratto è in fotografia ciò che per la matematica sono i numeri: la base. Da sempre i fotografi hanno tentato di intrappolare l’essenza delle persone nel ritratto, dapprima immortalando uno status sociale, poi virando sul familiare e infine entrando nella sfera del personale. Guardare ritratti degli anni ’60, ’70, ’80 può sembrare nostalgico per alcuni ma per altri è un modo di confrontare tipologie, tecniche, ambizioni. Un gioco quasi antropologico che narra chi siamo stati, i luoghi che abbiamo visitato, magari cosa abbiamo sognato per noi stessi. Ma se dovessimo raccontare il presente, consegnare al futuro l’uomo contemporaneo, cosa sceglieremmo di rappresentare? Come interpreteremmo l’intricata vita di oggi fatta di social network, lavoro precario, edonismo smisurato? Come far confluire in un solo scatto le mille sfaccettature dell’oggi restituendo un’immagine coerente dell’umanità nel terzo millennio?Nuove Tipologie di Ritratto ha chiesto ad alcuni fotografi di interrogarsi sul tema e riassumerlo in uno scatto. Un’unica fotografia in grado di consegnarci l’idea di contemporaneità, individuando nel soggetto scelto le caratteristiche evidenti del nostro percorso passato, la complessità del presente, la proiezione verso il futuro. Abbiamo selezionato quindici artisti, ognuno con il suo background che spazia dal giornalismo al reportage, al ritratto artistico fino al semplice hobby perché interpretassero il concept della mostra.Una delle risposte più evidenti è il senso di profonda solitudine dell’uomo di oggi, la sua vita invasa dai social network ha solo moltiplicato le vie per farlo sentire isolato. E’ così negli scatti di Silvia Saba, Valeria Spiga, Stefano Grassi, Fiorella Sanna che raccontano intimità vulnerabili esposte, ferite venute allo scoperto, a volte autoinflitte; Le enigmatiche immagini di Franco Casu e Silvia Taddei spiazzano chi osserva con la semplicità di una storia interrotta, o meglio di una storia di cui non riusciamo a capire il percorso.Giacomo Macis, Stefano Mattana e Max Solinas attingono alla cronaca, un quotidiano in cui diritti umani e personali sono sul filo del rasoio, continuamente messi alla prova, per nulla scontati. Ancora tecnologia negli scatti di Andrea Lecca e Ilaria Corda a sottolineare come con enorme facilità ci districhiamo tra smartphone e tablet addirittura fin da bambini. E allo sguardo pieno di aspettative di una bambina Katia Marotto affida la sua proposta, una bambina serena, fiduciosa. Radiosa è invece la fotografia di Marcello Treglia, una realtà rilassata e rilassante che include la componente naturale.In netto contrasto il lavoro targato A mad tea party: cosa succede quando i simboli crollano? Una Marylin Monroe di plastica, manichino da sexy shop usurata dal tempo è il soggetto della sua ricerca. Un’epoca che non risparmia le icone e le fagocita utilizzandole a suo vantaggio infrangendo non solo il sogno americano ma gli ideali universali che un mito come Marylin incarna.A conclusione di questa indagine c’è l’omaggio di Daniela Zedda a Maria Lai, artista ironica e piena di vita recentemente scomparsa, che rappresenta il passato, il presente e il futuro della creatività in Sardegna.

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Manu Invisible & Laura Frau

L’interazione tra i due giovanissimi artisti sardi residenti a Milano è molto innovativa: alle creazioni pittoriche del noto writer Manu Invisible la slow designer Laura Frau accosta i suoi interventi eco. Grandi sagome dipinte con lo spray includono elementi di riciclo multi materiali e piante verdi. Pittura, design, street art, grafica e guerrilla gardening si incontrano armoniosamente conquistando gli spazi al chiuso dell’Exma e gli ambienti all’aperto. Installazioni tessili, bozzetti grafici e oggetti recuperati acquistano nuovo valore espressivo grazie alla rielaborazione di Manu e Laura. Sensibili al fascino della strada, della cultura urbana e del riciclo i due artisti hanno realizzato, ognuno secondo la sua inclinazione, una sorta di ambiente urbano che mira a proporre una dimensione più umana, improntata alla bellezza semplice, alla gioia del colore e al potere rigenerante delle piante. Piccoli orti cittadini contenuti nei bancali, cascate di plastica ad emulare l’acqua, bombolette spray insistono sul compensato suggerendo storie e scenari. Manu Invisible è forse il writer sardo più abile nel ritrarre persone e nel definire le loro vicende, la sua capacità di cogliere emozioni in un lampo di luce e fissarle nel disegno è affascinante e non comune, tanto da renderlo inconfondibile quando ci si imbatte in una sua creazione in giro per la città, in tutta la Sardegna o a Milano. Laura Frau colpisce per la sensibilità nell’intuire le potenzialità di un oggetto dimenticato e, unita alla straordinaria manualità e all’estro creativo, questa sensibilità si trasforma in una vera e propria macchina d’assalto che spara senza sosta idee in grado di rendere il nostro quotidiano più gradevole. Questo è forse l’elemento che più li accomuna: il desiderio di portare il colore, strappare un sorriso, cercare il bello nella fredda indifferenza delle nostre città, per ricordarci che siamo persone ma soprattutto che siamo stati bambini e che anche noi un tempo riuscivamo a scorgere il cielo nel grigio di un muro.

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Pop Shock” – bipersonale di Geep e Ilaria Gorgoni

Trionfo di cromie nelle opere coordinate di Geep e Ilaria Gorgoni, giovanissimi autori di una pop art vivace che ha saputo rielaborare in chiave contemporanea la lezione della Factory di Andy Warhol. La disumanizzazione dei soggetti con l’uso eccentrico del colore proietta le loro storie su un piano metafisico, calando le opere in un contesto inusuale e provocatorio. l tema scelto viene dalla nostra realtà quotidiana:  gli inganni del cibo, la contaminazione, la cattiva alimentazione e più in generale la violenza che l’uomo compie sul pianeta e gli animali. Se siamo ciò che mangiamo è ora di fare un esame di coscienza: sofisticazione e marketing non si accordano con le nostre esigenze biologiche. Gli artisti ci esortano ad una maggiore consapevolezza e al rispetto di tutte le creature, mutuando dalla cronaca recente e meno recente gli argomenti di discussione; il gioco del colore non sminuisce l’efficacia del concetto ma lo trasporta su un piano ironico molto efficace. Il tratto grafico di Ilaria Gorgoni e quello dello stencil usato nella street art di Geep si amalgamano perfettamente in un insieme omogeneo in grado però di conservare le differenze stilistiche tra i due artisti. Più vicina al disegno pittorico la Gorgoni concede ampio spazio al bianco di fondo tracciando con la penna acquerellabile, l’ossido e l’acrilico contorni netti che definiscono le sue tormentate figure; colpisce l’attenzione per il gesto quotidiano che però, stigmatizzato, diviene quasi un simbolo, e fissa il momento come in una fotografia densa di significato. Geep invece utilizza tutto lo spazio a disposizione per creare delle texture monocrome che danno grande contrasto ai ritratti e completa il lavoro con una frenetica attività di taglia e incolla manuale per la realizzazione materiale degli stencil che utilizza per dipingere. La trasposizione dell’immagine stencil dalla strada alla tela mantiene intatta la forza del messaggio. Street art, pittura figurativa, pop art, grafica: questi gli ingredienti del terzo appuntamento con la rassegna Vamp, ingredienti per una pietanza dal sapore indigesto.

Vamp human decay foto di Alice Alberti (9)

Diamante Murru & Fabio Piccioni “Human Decay”

Le immagini di Fabio Piccioni catturano storie di degrado: il fotografo di Olmedo è affascinato dall’archeologia industriale, dai paesaggi desolati un tempo solcati dall’uomo, dai silenzi di cemento. La decadenza è palpabile, quasi fisica, si insinua nei luoghi, negli edifici, in qualche modo intacca anche chi osserva. Squarci di natura ribelle fanno capolino da lamiere consunte, lentamente le piante si riappropriano di spazi da cui erano stati escluse. Si intravedono cieli plumbei da soffitti incrinati che proiettano ombre malinconiche e diffuse: una celebrazione del fallimento industriale, simbolo materiale del crollo delle moderne cattedrali consacrate all’economia e al benessere. Il vecchio cede posto al giovane, la macchina al computer, e la fotografia, specchio di un presente in declino, si confronta con la pittura digitale. Così come Fabio Piccioni è attratto dalle tracce umane in un mondo incontaminato, dalla natura che si insinua tra le fabbriche, così Diamante Murru spoglia di qualsiasi traccia vitale le sue creature. La giovanissima artista cagliaritana affianca alle tradizionali tecniche pittoriche una ricerca sul digitale realizzando opere dal marchio inconfondibile. I colori sono gelidi e ricordano neon viola/azzurri, perfettamente adatti ai soggetti algidi e al mondo tecnologico intrappolato nelle sue tele; oggetto d’indagine è per questa giovane artista il corpo umano e in particolare se stessa. Il corpo è rappresentato in modo sintetico, interattivo con il computer eppure ancora molto umano nella precisione del dettaglio anatomico e umorale. Il risultato è un’equilibrata commistione tra lato umano e dato digitale. Possiamo immaginare una forma di assimilazione da parte dell’uomo delle funzioni del computer, un rapporto simbiotico tanto stretto da rendere labili e irriconoscibili i confini. Nel lavoro che i due artisti hanno studiato e proposto insieme vediamo agire le creature di Diamante all’interno delle ambientazioni di Fabio: tecniche e concetti si incontrano per raccontare una storia unica, fatta di emozioni alatalenanti. E’ la memoria di spazi, luoghi e persone a scandire i tempi della narrazione per volgere verso la desolata considerazione conclusiva: tutto passa, la vita stessa muta, cancellando le sue tracce terrene per divenire alter ego digitale.

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Skan

Laureato all’Accademia di Belle Arti di Brera, dove ha acquisito una formazione artistica tradizionale, Skan lavora nell’ambito della pittura, della grafica e della street art combinando insieme tecniche classiche e attitudine da writer. Il suo lavoro è fresco, ricco di citazioni e simboli che abbracciano l’anatomia umana e animale, la fantasia di certe illustrazioni infantili, il realismo della pittura a olio fiamminga e un’anarchia compositiva, seppure sobria, di impronta surrealista. Il risultato di questa straordinaria varietà è la creazione di personaggi fantastici inseriti in un non-spazio le cui storie rimangono segrete ma di cui intuiamo qualcosa grazie agli elementi inclusi nelle tavole. E di tavole è proprio il caso di parlare dato che, per un preciso fine estetico, viene utilizzato quasi esclusivamente materiale recuperato, vissuto, segnato dal tempo, capace di arricchire la narrazione e conferire forza e fascino unici. La realizzazione, mutuata proprio dalla street art, è affidata agli spray, senza bozzetti preparatori: il disegno è eseguito direttamente sulla tavola con precisione sorprendente. L’evidente abilità tecnica si affianca alla sensibilità personale dell’artista, in grado di restituire vigore, profondità e vita ai personaggi, alternando linee nette e precise a sfumature di colore, in prevalenza dai toni caldi. Compare anche un grigio di fondo, a ricordare l’origine street dell’autore, come se lavorasse pensando alle pareti di cemento della città. Nelle opere realizzate in collaborazione con Gabriele Pais le caratteristiche peculiari dei due artisti sono evidentissime eppure armonizzate perfettamente tra loro: le linee graffiate a matita, incise e sfumate come nuvole di Pais incontrano una schematizzazione dei personaggi mono occhio tipici di Skan, decolorati e destrutturati del sostegno muscolare e divenuti simili a rocce. Il risultato finale richiama qualcosa di antico e nello stesso tempo si proietta in un futuro molto simile al nostro presente fatto di elementi confusi, persone idealizzate e frammenti di realtà estremamente vividi. 

SIGNAL, performing art festival

PlayTime, 4 artisti per 4 tempi

La percezione del tempo è da considerarsi idea astratta? Un’invenzione dell’uomo per l’uomo in grado di incasellarne le azioni e cercare l’ordine nello spontaneo caos dell’esperienza vitale? O forse potremmo individuare nel tempo una componente biologica che rallenta e accelera insieme a noi accordandosi ai moti della nostra anima? L’angoscia di una lunga e interminabile attesa, il fulmineo svanire delle ore di una giornata felice. Una medaglia, due facce, che a ben guardare sono sempre la stessa a seconda del nostro umore. PlayTime: quattro artisti per quattro tempi, quelli principali che sentiamo sulla pelle. L’immobilità dei minuti che sembrano ore, le ore che troppo lente non sembrano scorrere, la concitazione dell’azione, la troppa velocità di fuga che sembra non farci bastare mai il tempo che abbiamo. Silvia Taddei, Mauro Melis, Fabio Costantino Macis e Manu Invisible raccontano l’uomo e il suo rapporto con questo concetto mutevole e a doppio taglio. Ci consegna all’immobilità dei desolanti e struggenti paesaggi urbani la fotografa Silvia Taddei, suggerendo un silenzio palpabile, metropoli che paiono non-luoghi che comunicano una quotidianità fatta di gesti reiterati, ereditati e quasi svuotati del loro senso. Siamo nel non tempo. Si insinua sommessamente ma incessante la sonorizzazione delle sculture in materiale riciclato realizzate da Mauro Melis: componenti antropomorfi, metallo, plastica, scandiscono un tempo lento, cadenzato, che ancora trattiene il segno tiepido di una presenza umana ormai passata. Questo è il tempo lontano. Fabio Costantino Macis cattura invece, con il suo obiettivo, il movimento: ritrae un tempo attivo, vivo, comunica un presente di masse mobili, di microcambiamenti che denunciano l’atto, declinazione e simbolo del ciclo vitale stesso, fatto di azioni che si susseguono continue come le maglie di una catena ed esaltate dalla performance di Noemi Medas. E’ il tempo dinamico. Velocità, bagliori di luce e colore come li coglieremmo guardando dal finestrino di un’auto in corsa: tutto scorre rapido, quasi confuso e inafferrabile nel lavoro di Manu Invisible. La clessidra che fa scivolare inesorabile i granelli intrappolati nella sua anima di vetro è una metafora fin troppo scontata dell’esistenza umana ma non per questo meno efficace. Questo è il tempus fugit. Appare quindi fortissima la componente di relatività nell’artificio che chiamiamo tempo, sortilegio che sprigiona ed imprigiona, da intendere come un ingranaggio che si innesca, inceppa e spegne, in grado di comporci e di disfarci, che ci vede nascere e ci consegna all’eternità.

I am because you are” Alessandro Olla

Alessandro Olla, promotore e fautore della sperimentazione elettronica, coinvolto in tante iniziative di respiro internazionale, si è misurato con un progetto che trascende il concetto di musica per divenire documento nel senso più ampio del termine, abbracciando aspetti legati alla componente musicale ma anche a quella documentaria, ambientale e antropologica. “I am because you are” è un progetto di field recording e live electronics realizzato durante la residenza artistica al Sunhoo Park – Hang Zhou, in Cina, nell’agosto 2012 che si divide in due componenti distinte: la registrazione dei suoni dell’ambiente, con lo scopo di trovare ed esplorare l’identità acustica del luogo, e l’esecuzione di una performance video/sonora, che usa riprese video e registrazioni dei panorami sonori, modificate in tempo reale con software di live electronics. Aldilà dell’approccio tecnico operato da Alessandro Olla è soprattutto la componente emotiva a rendere il progetto interessante: il Sunhoo Park è un luogo fortemente rappresentativo della profonda trasformazione che attraversa la società cinese e il suo territorio. La Cina ha compiuto grandi cambiamenti sia sotto il profilo economico che su quello sociale, espandendo il commercio e le attività produttive, aprendosi al mondo occidentale in modo esponenziale e quindi miscelando elementi tradizionali ancora forti a suggestioni di sapore europeo. Olla è rimasto profondamente colpito e affascinato di come anche il suono dell’ambiente inevitabilmente stia subendo rapidi mutamenti. L’industrializzazione, la creazione di strade e strutture sta sovrapponendosi in modo sempre più pressante alle architetture naturali sostituendo i rumori endemici del luogo con quelli tipici della modernità.Si creano così eco, rimandi, feedback che divengono i nuovi suoni del luogo, l’anima vibrante da catturare e utilizzare come espressione sonora attraverso un racconto di note inusuali e accostamenti inediti, elaborati con sapienza per restituire la personalità e l’atmosfera dello Sunhoo Park colto nella sua fase di trasformazione.In questo modo la sperimentazione si fonde con il documento, diviene testimonianza di un passaggio e i confini della performance si ampliano segnando nuovi orizzonti da raggiungere e superare.

Stefano Obino Attraverso il filo spinato

Il viaggio si presta ad un’infinità di sfumature e interpretazioni che attraversano tutto lo spettro delle esperienze umane e dei sentimenti: da fuga a nuova prospettiva, da confronto ad arricchimento, da divertimento a parentesi di riflessione. Da sempre l’uomo ha viaggiato con l’idea di conoscere e, talvolta, documentare e condividere: narrazioni, cronache, memoriali invadono la letteratura dall’alba dei tempi con il loro carico di notizie, scoperte, denunce. C’è una forma particolare di racconto divenuto moda nell’Ottocento e che recentemente è tornato in voga soprattutto nel nord Europa: il carnet du voyage, una preziosa forma d’arte che privilegia il gusto retrò per la narrazione accompagnata da foto, bozzetti, disegni.

Il taglio fortemente artistico e personale del carnet sottolinea l’importanza della voce narrante, si discosta dal coro, e anche laddove affronta tematiche di sapore universale lo fa attraverso un’ottica estremamente legata alla sensibilità dell’artista.  A rendere affascinante il carnet du voyage ai nostri giorni è proprio questo suo differenzarsi dalle modalità di comunicazione contemporanea, generalmente stereotipata e codificata su tipologie predefinite come blog ma soprattutto social network. Spazi angusti, troppo leggeri per vocazione, per poter sviluppare un iter artistico e riflessivo valido.

Stefano Obino, comunicatore, illustratore, viaggiatore si è trovato a percorrere un itinerario realmente impegnativo da raccontare che parte come un classico carnet du voyage da Parigi fino a giungere ad un’attenzione per il dettaglio storico che diviene prorompente e caratterizza maggiormente questa mostra. A Parigi Obino osserva le relazioni tra le varie etnie, il fastidio con cui interagiscono, il sospetto reciproco, la diffidenza. Da qui le fissazioni folli sulle razze, le piccole e grandi persecuzioni della storia che hanno stravolto l’assetto europeo e il sentire comune.

Al centro comunale d’Arte e Cultura il Lazzaretto ha ricreato l’atmosfera del suo viaggio, con oggetti, suoni, luci capaci di restituire, seppure in modo artificiale, l’autencità delle emozioni provate. Testi, ritratti inediti, bozzetti si rincorrono come binari di un treno diretto verso il capolinea ma senza commiserazione; l’occhio artistico filtra aspetti troppo legati ai sentimenti gridati per suggerire invece un trasporto emozionale e una rielaborazione da parte di chi osserva.

Lo spettatore, coinvolto nel viaggio con tutti i sensi grazie ad una scelta di allestimento elaborata, trarrà da solo le sue riflessioni dando origine ad emozioni individuali intime e totalmente nuove, non necessariamente in linea col taglio dell’autore.

I disegni sono curatissimi, a volte invece solo abbozzati con pochi tratti ma carichi comunque di tensione ed energia; oggetti, fotografie, dipinti si inseriscono in un contesto appositamente studiato per scuotere le menti, per attraversarle, come trincee invase dal filo spinato.Non ci sono proclami, condanne, aspirazioni ma solo la nuda verità raccontata con sobrietà ed eleganza, ma non per questo meno opprimente e violenta. Un altro modo per raccontare le pagine più nere della storia dell’uomo, che si materializzano ancora una volta in tutta la loro gravità davanti ai nostri occhi.

 

Comunicazione, arte e nuova bellezza

Il problema principale dell’arte contemporanea è la difficoltà del suo linguaggio. Tutti siamo in grado di apprezzare una statua greca dalle perfette sembianze umane, dato che risponde a canoni precisi di bellezza dell’epoca “Kalos kay agatos”, il bello e il buono coincidono nel senso comune. La forma diviene concetto ed esprime un ideale.

L’arte contemporanea invece capovolge questo binomio comunque indissolubile: è soprattutto concetto e solo secondariamente forma, anzi la forma è spesso semplice mezzo espressivo. L’arte classica si rivolgeva ad una collettività istruita ed educata al bello mentre ai giorni nostri è un “fenomeno” sotterraneo, diretto a pochi, con un pubblico poco attento o disinformato, attratto solo dal sensazionalismo. La forma è al servizio di un messaggio, di un’idea, di un concetto ma non è essa stessa ideale e concettuale, perciò si esprime in forme non riconoscibili, aliene, in qualche modo “disturbanti”. Chi non possiede le chiavi del regno resterà intrappolato nei più comuni clichés sul tema, ancorato alla ricerca del bello ideale in opere che palesano inquietudine o altro. I più sono infastiditi e spaventati mentre l’odierno modo di fare arte regala anche una grande speranza: la povertà dei materiali spesso concede l’illusione che sia a portata di tutti, quasi traslata in una dimensione artigianale. Anche i lavori che richiedono l’uso del pc avvicinano alcune categorie professionali all’arte coprendo quel divario intellettuale di consapevolezza e comprensione della stessa che si è persa con l’avvento folgorante della pop art. Paradossalmente sbattere in faccia a tutti la commerciabilità e la finzione che è l’opera d’arte ha allontanato il pubblico, facendolo sentire inadeguato o preso in giro. Pregi e difetti del gigante Warhol. Quale che sia la personale opinione di ciascuno di noi sul tema è fondamentale ricordare che l’arte è principalmente comunicazione e che la difficile interpretazione di essa nel contemporaneo è data dalle sovrastrutture culturali e alla molteplicità di influenze che invadono il nostro quotidiano. Una grave colpa in questo lungo percorso di disinformazione la ha il mondo della scuola: le ore di storia dell’arte sono troppo poche, con il risultato di far percepire la materia come un qualcosa di superfluo, quasi facoltativo. L’arte ha invece tra i suoi compiti quello di educarci, farci capire ciò che guardiamo,  formarci un giudizio, a inquadrare un’epoca e la sua storia e in definitiva a stimolare la nostra sensibilità. Studenti più colti in questo campo diventerebbero cittadini più attenti e rispettosi del bene pubblico.

La Street Art e la Urban Art in questo senso sono emblematiche: sia il graffitismo che gli interventi di decoro urbano come yarn bombing, guerrilla croquet o guerrilla gardening sono comunicazione immediata che riesce a coinvolgere soprattutto un pubblico giovane in perenne ricerca di linguaggi e proposte nuovi. La Street Art capovolge l’idea stessa di opera d’arte scegliendo i muri come tela, creando qualcosa di effimero, di consapevolmente deperibile ma ancora in grado di suscitare polemiche e far parlare di sé, aspetto ancora più evidente negli interventi di urban decor. A seconda degli stili e delle correnti interne a questo fenomeno artistico, ormai quasi quarantenne, vediamo proposto un modello  atipico, creativo, contemporaneo. Atipico perché non risponde e non ha mai risposto alle caratteristiche ufficiali di luoghi come musei, gallerie ed eventi; creativo perché appoggiandosi all’arredo urbano ne segue le spigolosità, si insinua nel suo tessuto divenendo tutt’uno con esso; contemporaneo perché realmente rivolto alla realtà che viviamo, spesso portavoce di messaggi di interesse o lotta sociale, altre volte semplicemente decorazione. Il bello di questo genere di lavori è che può non esserlo in senso tradizionale: la Street Art racconta la realtà a modo suo, non cerca il dettaglio virtuoso dei pittori fiamminghi o la perfezione della scultura classica ma vive il presente, un presente che non conosce un verbo unico ma è costituito da una moltitudine di intrecci, stimoli e segnali di cui l’arte di strada diventa genuino interprete e non mero imitatore.

“Francesca Sorrentino. Geometrie in bilico tra fisica e sentimento”

Francesca Sorrentino è artista versatile, istintiva, elegante. I suoi lavori nascono dalla precisa esigenza di comunicare un’armonia interiore che nello spazio esterno e nei luoghi trova dimensione fisica e conferma pratica. L’ambiente è infatti non solo fonte continua di ispirazione, ma anche parte integrante della creazione e delle opere stesse, volte in qualche modo a riconciliarsi con lo spazio che poi le ospiterà.

Terra di Sardara, ferro, lava pietrificata, stucco, sabbie sono gli ingredienti della sua ricetta alchemica che si conciliano su tele e pannelli dipinti, manipolati e lavorati fino a comporsi in modo perfetto. I materiali si intersecano con un innato gusto per la geometria, seguendo un ordine ancestrale in cui gli elementi dialogano tra loro con delicatezza ed eleganza talmente equilibrata da sembrare inevitabile, naturale, indispensabile.

Estremamente decorativa l’arte della Sorrentino attinge alla forza di questi elementi e la trasmette in modo impeccabile con esecuzioni pulite, senza sbavature e imperfezioni ma che allo stesso tempo tradiscono tutto il trasporto e la grande umanità che la caratterizzano.

Definire la sua pittura semplicemente materica sarebbe riduttivo perché il gusto per la manipolazione si accompagna ad uno spettro umorale in grado di condizionare scelte fondamentali del percorso creativo che trascendono la materia per divenire concetto.

Il gusto per il colore si manifesta in grandi campiture geometriche così come negli sfondi perfetti che richiamano a volte le texture grafiche delle trame tessili così come architetture dalle profondità luminose e quasi fiabesche. Troppo riduttivo anche cercare richiami altisonanti a Pollock, a Chagall, a Turner per le cromie create da un’esigenza quasi fisica di trasporre idee e momenti e fissarli attraverso la materia su una tavola. Il lavoro di Francesca Sorrentino è molto meno ragionato e più immediato, quasi automatico.  Turbini cromatici e materici solo apparentemente confusi, ma che rivelano codici talmente precisi da sembrare meccanismi studiati ed infallibili, ingentiliscono i supporti adatti a qualsiasi ambiente. Come in una sorta di ciclo vitale la materia utilizzata, naturale o artificiale che sia, dopo la trasformazione riconquista il suo posto nel mondo esterno, inserendosi con grazia in un disegno più ampio molto vicino all’armonia interiore che l’artista vuole comunicare. Un’armonia che, come è proprio della natura umana, non è perfettamente lineare ma frammentata in tante sfaccettature che come parti di un prisma compongono la realtà.

Lontana dalle provocazioni consuete del fare arte ai nostri giorni Francesca Sorrentino si colloca in bilico tra un modo di creare contemporaneo, capace di guardare al prossimo futuro e un’indole discreta di fascino un po’ vintage, inusuale rispetto al ricercato e stridente clamore del nostro tempo.

 

 “Ermenegildo Atzori neri di piombo”

 Vibrante memoria, poesia della materia, propensione al viaggio, radici solide. Questi gli elementi della nuova produzione di Ermenegildo Atzori, pittore e scultore, il cui approccio ad entrambe le discipline artistiche è identico e rivela caratteristiche sia tecniche che concettuali in grado di rendere il suo lavoro unico e riconoscibile. Neri di Piombo è un percorso di viaggio nel buio, un’oscurità percepita come ambiente fertile dove coltivare le idee, nera e fertile come la terra ricca di humus che è parte integrante delle creature che dalla materia plasmata prendono vita come un golem. I ritratti a cui l’artista da qualche anno dedica la sua attenzione si sfaldano in schegge dorate che baluginano nella profonde sfumature del nero, i lineamenti vibrano mossi da correnti e forze invisibili conquistando lo spazio della tela rivolti verso nuove mete, scomposti come in una visione atomica. Nel concetto e nella tecnica si rivelano a chi guarda lacrime di piombo e colore che aiutano l’illusione del movimento nelle figure ritratte e che attraversano la tela come filamenti lucidi, strade e ponti di collegamento tra le scintille d’oro, rappresentano gli eventi, le scelte, i singoli passi. Cosi anche gli elementi scultorei intitolati significativamente Replicanti, svincolati dalla tradizione sarda che era ancora percepibile nella precedente produzione, divengono ironica quanto serissima rappresentazione della contemporaneità. Nati da un’identica matrice assumono caratteristiche singolari e specifiche differenziandosi gli uni con gli altri grazie al lavoro di manipolazione, incisione ed infine combustione. Ermenegildo Atzori resta fedele all’uso del fuoco che accompagna buona parte del suo percorso artistico, e sembra trovare rinnovato vigore nel contatto intimo con gli elementi della natura: la terra, il fuoco, l’aria e l’acqua sono presenti in ognuno dei suoi lavori. A questi si aggiunge il piombo, intruso miscelato in polveri capace di dare compattezza e solidità alle opere che trattengono così una componente di matrice industriale amata e vissuta dall’artista. Anche la cenere a volte viene utilizzata per conferire consistenza alla materia pittorica, cenere derivata dalla combustione di vecchi lavori che vengono sacrificati ma contemporaneamente entrano a far parte di un nuovo processo creativo, fagocitati e resuscitati, presenti come memoria. Composizioni che affrontano un viaggio familiare, fatto di affetti, di rivelazioni, di prese di coscienza e che divengono scrigni dove si depositano la fatica della ricerca, lo spirito del viaggio, la memoria passata e quella che verrà. Scrigni realizzati in forma di piccoli monoliti neri lacerati da ferite che la vita non può risparmiare, circondati da numi tutelari che come venti favorevoli spingono la barca nella navigazione fino alla sua meta: sono gli affetti, i filosofi, i musicisti e gli artisti che hanno signicato pregnante nell’operato di Ermenegildo e ai quali riserva un luogo speciale dove essere ricordati.  L’impresa non è importante solo nel suo risolversi, nel suo catartico approdo ad una simbolica Itaca, ma è significativa nelle tappe, nel percorso che l’artista compie per arrivare e nel guardare queste opere lo immaginiamo camminare in una strada di montagna apparentemente solitaria, immerso negli elementi della natura, con una fabbrica sulla linea dell’orizzonte.

Gabriele Pais, Dipingo perchè sono un pessimo scrittore

Ironizza sulle sue scarse doti di scrittore Gabriele Pais, tra i più attivi ed interessanti artisti di questa Sardegna contemporanea che proprio attualmente si sta dedicando alla narrazione di brevi racconti, filastrocche e poesie. Una contemporaneità sarda che fatica ancora ad emergere a ivello nazionale e che solo nelle opere di pochi artisti raggiunge standard competitivi a livello internazionale.

Gabriele è uno di questi artisti: nasce a Cagliari, artisticamente si forma  con la street art dalla quale si allontana intorno al 2007 per riapprodare alle sue origini solo di recente, realizzando graffiti e altri interventi urbani. Incomincia giovanissimo il suo percorso pittorico miscelando forme d’arte differenti: dalla fotografia alla pittura, facendo dialogare l’immagine fotografica con gli interventi grafici e l’interazione pittorica vera e propria.

Questa sua produzione iniziale, vagamente inquietante, sembra incarnare perfettamente i dettami di interazione tra forme d’arte e gli studiati effetti di disturbo della comunicazione diretti allo spettatore, rivelando un artista piuttosto complesso fin dagli esordi.

Dotato di grande sensibilità e gusto estetico, mano a mano che si fa conoscere attraverso mostre personali (all’Exmà di Cagliari per la rassegna altrArte) e collettive (I colori dell’estasi al Superstudio Più di Milano, Stanze tirate a Lucido all’Exmà di Cagliari) Pais spinge la ricerca su un terreno di indagine sempre più minimale: dai quadri scompaiono gli elementi fotografici per lasciare posto ai soli i segni grafici, sempre più evidenti e significativi, a volte perfettamente eseguiti, altre volte marcati e rimarcati nervosamente, in modo studiato e mai fuori misura. Un artista che predilige il concetto all’orpello estetico e che sviluppa un percorso incentrato sul ritratto realizzato proprio attraverso il segno. Dalle miniature alle grandi tavole le opere di Pais si caratterizzano per un ampio uso del bianco, leggerezza che si mantiene nelle creazioni scultoree in gesso, metallo, plexiglas, ma anche compensato e materiali poveri, vicine alla semplicità visiva dell’opera di Twombly. L’inconsistenza dei materiali che sceglie si rivela perfetta per la pulizia grafica e chiarezza concettuale che caratterizzano il percorso artistico intrapreso: il colore non è elemento fondamentale, solo il bianco e il nero vengono utilizzati in modo costante e simbolico in un elegante equilibrio bicromatico. In alcune serie il colore fa capolino nelle sue forme primarie interagendo con questo equilibrio: rossi vivi, gialli pallidi che sfumano nel consueto bianco con la delicatezza tipica delle romantiche opere di Turner, ma da Pais accostata a segni netti e contrastanti tipici della sua produzione. Ultimamemente predilige immagini semplici caratterizzate da fiori, punte, tagliole e figure desolate su sfondi prevalentemente bianchi o sporchi, graffiati e non finiti, spesso realizzati su impalpabile carta.

Silvia Taddei  cantastorie per immagini

 La fotografia spesso è ancora considerata a torto una forma d’arte secondaria, in qualche modo replicabile e subordinata a pittura, scultura e arti convenzionali. Ne sa qualcosa chi da anni combatte contro questo pregiudizio, portando avanti idee e investendo tempo, denaro e creatività nell’ambito fotografico, sperimentando diverse tendenze, diversi stili e rimanendo comunque fedele al proprio modo di guardare le cose, i luoghi e le persone.

E’ il caso di Silvia Taddei, nata a Oristano nel 1979, che ha frequentato un corso triennale presso l’ Istituto Superiore di Fotografia e Comunicazione Integrata di Roma conseguendo il diploma di Fotografa Professionista nel 2004 e che da subito si inserisce come assistente per diversi studi fotografici romani, dedicandosi con grande impegno alle molte ramificazioni stilistiche della fotografia: dal composit al book, dagli eventi al catalogo.

La Taddei segue volentieri concerti, spettacoli, rappresentazioni, ama in particolar modo manifestazioni come la Sartiglia e il Cosplay di Oristano e A Maimone di Samugheo e si interessa al mondo Cosplay di cui cattura le atmosfere surreali e magiche. Ha lavorato anche come fotografa di scena per le Pellicole Cinematografiche “Il peso dell’aria” (2007), “Il soffio dell’anima” (2007), “A morte!” (2009) e ha al suo attivo due collettive: “Schattentanz, la danza delle ombre” presso la galleria MK e “mutAzioni”, realizzata in occasione della seconda Tattoo Convention a Cagliari, eventi che l’hanno fatta conoscere e apprezzare in terra sarda.

Attualmente è in fase di realizzazione la prima personale, una mostra importante, affiancata da un catalogo, che si terrà a breve a Palazzo Vice regio a Cagliari dedicata interamente alla sua grande passione: il viaggio. E’ infatti questo il tema a lei più caro: luoghi poco noti come Mongolia e  Lettonia si affiancano a Francia, Germania, Svizzera, Inghilterra e naturalmente Sardegna, elaborati e filtrati da un occhio attento al dettaglio, capace di cogliere l’anima delle cose e di restituire agli occhi di chi guarda storie senza interruzioni e pause.

Scorci, ritratti, la linea dell’orizzonte, assumono significati più profondi del semplice reportage e divengono narrativi, raccontando la solitudine di chi fotografa e il mondo di chi è fotografato: realtà periferiche, particolari architettonici urbani, un oggetto, un movimento, tutti elementi che componendosi come tessere di un mosaico vanno a completare le storie che Silvia Taddei racconta con grande sensibilità e che catapultano chi osserva in una dimensione estremamente realistica e coinvolgente. Il viaggio diviene esperienza spirituale, assurge a simbolo del passaggio, del cambiamento, del mutare pelle.

Nel cassetto anche altri progetti ambiziosi: un libro fotografico sulla scena alternativa musicale di Cagliari, una pubblicazione che racconti le persone, i luoghi e le iniziative per documentare il cambiamento e la crescita della nostra città attraverso la realizzazione di un archivio fotografico in continuo aggiornamento e ovviamente corredato di testi esplicativi e schede informative. Ecco che la foto non è più un bello scatto appeso al muro ma diviene un passaggio, una porta verso altri spazi, mondi, che si affaccia con discreta eleganza sulle vite degli altri e che non è affatto materia replicabile ma brilla per originalità. 

Daniele Serra

E’ sempre molto difficile raccontare le opere di Daniele Serra: le atmosfere così fumose, indefinite e allo stesso tempo ricercate rendono le parole altrettanto vaghe.

L’artista cagliaritano, già conosciuto anche all’estero per le sue personali a San Francisco, Nottingham e Brighton, ha alle spalle un lungo iter fatto di ricerca e sperimentazione che lo ha portato lentamente ad affrontare tematiche legate allo stile neogotico con una peculiarità che lo rende riconoscibile e unico. Partendo da texture di sfondo da lui stesso realizzate attraverso fotografie e scansioni di materiali poveri tra i più disparati, Serra costruisce una storia focalizzandosi sull’ambientazione e sul ritratto. Le immagini catturate nelle sue tele attingono alla fantasia, alla tradizione letteraria del romanzo gotico e a quella cinematografica del cinema dell’orrore, con incursioni nel gusto noir di epoca vittoriana, di cui conserva la trasognata e decadente attitudine.

Una galleria di ritratti scaturiti dalle tenebre in cui Serra si muove con incredibile agilità narrativa: visi languidi da dive del cinema muto, creature androgine dalla natura indefinibile, ambientazioni vicine al fumetto e all’illustrazione, derive interpretative della pittura romantica di Blake, delle offuscate visioni nebbiose di Turner e del Simbolismo esoterico e inquietante nascosto nei quadri di Odilon Redon. Serra è indubbiamente capace di ricreare i nostri incubi con grazia, di strapparli al mondo dell’onirico e di dare voce ad un tormento che trascende i secoli attraversandoli. Un’inquietudine tanto irreale quanto riconoscibile che appartiene da sempre all’umanità e che si annida, affascinante e spaventosa, nell’anima collettiva.

 

Daniele Serra “Machineries”                           

Il nuovo ciclo inaugurato da Daniele Serra può essere considerato una vera rivoluzione sotto molti aspetti. Abbandonati gli sfondi pittorici pastosi e sfumati che facevano pensare ad un Turner contemporaneo, Serra asciuga la sua pittura fino a concedere ampio spazio alla superficie di alluminio che caratterizza l’attuale produzione creativa di questo artista straordinario. Il legame con i lavori precedenti e lo stile che lo contraddistinguono come un marchio di fabbrica sono comunque evidenti: il tratto, la composizione, i contenuti che racchiudono inquietudini peculiari dell’età moderna. Dal bianco degli sfondi in alluminio si animano e snodano, conquistando lo spazio, macchinari, tubi, rondelle: i simboli della rivoluzione industriale divenuti ora decorazioni simboliche, emblematiche della decadenza avvinte a parti anatomiche umane. Nessun riferimento a Giger o alla scuola biomeccanica, l’iter appare assolutamente nuovo e si discosta dagli effetti 3D tanto di moda perseguendo invece un gusto retrofuturistico. La figura umana diviene un significante simbolico esattamente al pari degli elementi meccanici, non spicca mai direttamente, si amalgama nella composizione insinuandosi discretamente tra i ferri, divenendo parte del complesso, negandosi come identità definita e assurgendo a rappresentazione, a puro concetto. Emerge un’eleganza gelida, senza sbavature, estremamente persuasiva perché i campi di indagine di Serra, grafica, pittura, illustrazione, sembrano riunirsi e compenetrarsi in perfetto equilibrio senza l’ausilio del digitale. Un ciclo originale fortemente sentito dall’autore che continua con apparente facilità e innata classe ad aprire porte su mondi che si inseguono l’un l’altro, dimensioni che abbracciano la suggestione letteraria cyberpunk e la recente tendenza steampunk, i contrasti del grande schermo e le connessioni del virtuale uniti ad un fascino antiquario per tutto ciò che è interazione tra uomo e macchina.

Stefano Obino

Le opere di Stefano Obino, ecletico artista che si divide tra grafica, fumetto e musica, con una lunga carriera nel fumetto d’autore, nella grafica pubblicitaria e nel creativo ambiente del cosplay, regalano allo spettatore una visione del tutto nuova del mondo cyber.

L’interazione uomo/macchina, profetizzata dai pioneri del cyberpunk in letteratura, da visionari film come “Akira”, un tempo binomio e dicotomia inaccostabili, diventa nei lavori di Obino poesia visiva dotata di grande eleganza e molto vicina al nostro quotidiano. Lavorati come fumetti, frutto di ore e ore di disegno a mano, fissati su colonne e reti metalliche, i soggetti fotografati da Obino si muovono raccontando storie in grado di interpretare e rendere reali ambientazioni post atomiche, sentimenti sintetici, corpi in cui il sangue si mescola alla benzina.

La capacità interpretativa, la sensibilità e la creatività dell’artista restituiscono sensazioni quasi fisiche: sentiamo il fruscio dei cavi, il ferro delle macchine, siamo in grado di percepire l’odore del sangue e del metallo (così simili tra loro) della nuova razza che si muove in spazi appena accennati ma in grado di descrivere una trama completa.

Gelidi e dinamici, ma dotati di sentimenti umani traditi dagli sguardi, gli androidi di Obino affascinano e catturano lo spettatore catapultandolo nel loro mondo. Attraverso tagli diagonali, inquadrature dall’alto e un uso dello spazio narrativo tanto fotografico quanto pittorico, non incontriamo resistenze nell’entrare dentro le storie che Obino propone, realizzate con la leggerezza del fumetto ma con un enorme bagaglio di conoscenza nell’ambito della cultura cyberpunk.

 

“Street Art a Cagliari, dalla Strada a Palazzo Regio”

Da anni si guarda alla strada come fonte di ispirazione e miniera di talenti sia in ambito artistico che come luogo ideale per osservare mode e tendenze: dai muri cittadini infatti le opere dei writers si trasferiscono nei musei, nelle sale espositive, sulle passerelle delle sfilate, raccontando qualcosa della città a cui appartengono, delineandola in qualche modo, cercando lo sguardo del passante per renderlo partecipe di messaggi o semplici decori.

Per la prima volta writers sardi appartenenti a correnti diverse e con molte esperienze anche sul territorio nazionale si riuniscono a Cagliari, ed è anche la prima volta che l’istituzione della Provincia concede Palazzo Regio per una mostra del tutto inaspettata in un edificio monumentale. Portare colori, forme e linguaggi della street art in un palazzo storico è idea ambiziosa: il contrasto tra gli arredi d’epoca è evidente per gusto, tecnica, materiale, ma suggerisce armonie di coesistenza importanti, sottolinea la poesia insita nel segno, in qualche modo ci propone una comunicazione slegata dal contesto di appartenenza riconoscendole il valore di opera d’arte e rendendola nuova. Che lo vogliamo o no spesso si instaura un dialogo tra le pareti che ogni giorno vediamo quando usciamo di casa e il nostro occhio che ne cattura forme, colori, e si abitua ad essi. Inutile parlare in questa sede di inquinamento grafico delle città, polemica vecchia e superata, inutile anche perchè ci riferiamo ovviamente ad artisti che lavorano col tessuto urbano rispettandolo e interagiscono con esso senza danneggiarne i monumenti e la storia, anzi aggiungendo alla stratificazione architettonica una forma di comunicazione artistica fresca e contemporanea che arricchisce. Superfluo e presuntuoso anche cercare di ridurre in poche righe la storia di questa forma d’arte che abbraccia oltre trent’anni di attività in diversi continenti, preferibile rimandare ai manuali, alle monografie e agli approfondimenti i nomi e le situazioni che hanno dato origine e sviluppo alla street art. L’arte di strada è una forma diretta di comunicazione, senza troppi filtri, a volte primitiva nella sua evidenza, è ancora quasi sempre clandestina e non smette di regalare talenti e interessanti punti di vista proprio perchè al di là dell’affermazione estetica spesso la street art è corroborata da solidi contenuti di denuncia che costringono chi guarda a riflettere su tematiche legate al territorio e alla vivibilità delle città, sulla qualità della vita, ma anche su argomenti di carattere sociale più ampio come il terzo mondo, l’analfabetismo, il potere dei media.

Lo strumento principale per la realizzazione dei graffiti è la bomboletta spray, ma anche lo sticker adesivo viene molto utilizzato, dal piccolissimo formato a quello enorme; anche la pittura, la scultura e l’installazione sono contemplate e indicative delle abilità manuali e della fantasia creativa degli artisti street. Le installazioni spesso si fondono con l’arredo urbano, sfruttandolo, decorandolo, creando una nuova identità come ha fatto, ad esempio, Pao a Milano trasformando in pinguini i dissuasori del traffico (funzione inalterata, estetica migliorata). La pittura a muro può includere anche elementi tridimensionali come oggetti per ottenere una prospettiva più incisiva e realistica o creare al contrario degli spiazzanti contrasti surreali. In ambito scultoreo si è sviluppato soprattutto il lavoro sui toys, adattati o plasmati ex novo i pupazzi divengono vere e proprie opere d’arte.

Il primo impatto con interventi così invasivi può istintivamente essere sgradito ad alcuni ma per chi ama osservare le città in cui si muove, conoscere e non limitarsi a guardare, allora quei segni appaiono come codici di più o meno semplice interpretazione, ma in ogni caso dotati di fascino. Anche l’aspetto decorativo non è da sottovalutare perchè spesso i writers agiscono dove il grigiore del quotidiano abbandono diviene squallore evidente e stratificato, uno squallore opprimente che volenti o nolenti si isinua nella vita di tuti i giorni condizionando il nostro umore. Un modo di sentire gli spazi cittadini, di rivendicarne l’appartenenza, una necessità narrativa che si traduce in rapidi blitz notturni che al mattino rivelano la loro bellezza, questo è fare street art. Indipendentemente dai gusti personali infatti l’interesse per queste forme d’arte è da ricercare proprio nella relazione che i writers stabiliscono col territorio: non un’ affermazione vandalica del sè, l’opera è concepita come un omaggio, una poesia visiva da dedicare alla città e a chi la abita, un intervento performativo di reale interazione con l’ambiente urbano.

Lungi dal voler sembrare un evento celebrativo e tantomeno esaustivo di una corrente artistica tanto longeva quanto variegata Street Art a Cagliari, dalla Strada a Palazzo Regio vuole solo essere il primo tentativo di raccontare storie di città ai cittadini stessi, spettatori spesso distratti e inconsapevoli, da parte di alcuni tra i migliori writers di Cagliari: Raba, Crime, Fema, Skan, Manu Invisible, Iem 82, Prosa, Sklero, Jep, Snuf, Saletta Team, con la gradita partecipazione di Shine Royal e Kunos da Milano, città che da anni ha intuito e valorizzato l’attività artistica dei writers. Ognuno dei partecipanti ha dato un contributo fondamentale alla mostra con una personale visione di questa forma d’arte e della città confrontandosi, chi in modo entusiasta chi polemico, con l’ambiente, con un allestimento complesso, con l’idea stessa di intrappolare lo spirito della strada all’interno e non all’esterno di un palazzo.

“Pisciarrenconis, gente di Castello”

Castello, un quartiere in salita o in discesa, dipende da che direzione si prende, complicato, con i sanpietrini in perenne lotta con la fermezza delle caviglie, il quartiere dove le chiacchiere si rincorrono nei vicoli, nelle continue svolte, nelle strade che profumano di pioggia e lenzuola pulite, nei grandi contrasti armonizzati evidenti sia tra le case che nella gente. Si va dai palazzi nobiliari storici in decadenza che mettono malinconia fino alle case popolari in cui il profumo del sugo si spande nell’aria insieme ad un senso di fatica, di lavoro, di lotta e rassegnazione al tempo stesso. L’armonia dei contrasti è un qualcosa che non si può spiegare, si manifesta allo sguardo di chi sa cogliere i dettagli: è fatta di elementi poveri mescolati ad arredi di design minimale, di palazzi dalle porte murate e dagli atrii simili a gole oscure fino a improvvisi squarci di luce provenienti dal locale elegante e silenzioso che sta proprio accanto. E’ la connessione a fare la differenza, a rendere magico quell’angolo di mondo.

E’ il quartiere degli artigiani, delle botteghe cariche di lavori e profumi di olio, tempera e legno, il quartiere delle dimore nobiliari e dei gatti, delle improvvise panoramiche e dei lunghi vicoli di sapore medievale. Una luce particolare, ambrata, dona caratteristici colori agli edifici, alle piante, alle persone. Questa è l’atmosfera che da oltre un anno ho imparato a conoscere da quando Maddalena Corda ha aperto, e affidato ad un manipolo di volenterosi, MK Spazio Cultura, piccola galleria in via santa croce 9, vicino alla Torre, nella via dei locali, nel cuore del quartiere. Più che una galleria Mk è divenuto un ritrovo in cui le arti visive attraverso mostre personali e collettive fanno da cornice a laboratori artistici, corsi, dibattiti. Uno spazio libero e aperto alla contaminazione, caratteristica indispensabile di questi tempi, e all’ibridazione tra molteplici forme d’arte e comunicazione. Si assomigliano un po’ tutti i salotti culturali che si sono succeduti nel tempo a Castello: pareti in pietra, soffitto con le travi in legno a vista, un aspetto decisamente poco uniformato alle caratteristiche asettiche dettate dai modelli delle gallerie d’arte contemporanea. Eppure la commistione di elementi moderni con l’architettura tradizionale spesso si rivela interessante con una valorizzazione sia del luogo che delle opere esposte. La gente impara a conoscere e frequentare i nuovi ritrovi, chiede timidamente, si affaccia, poi partecipa e rende suo quel luogo come se fosse sempre stato lì, in quel modo, con quelle caratteristiche. Ci rivolgiamo soprattutto ai giovani artisti, siamo luogo di transito e piccola piattaforma per esposizioni e performance che fioriscono anche solo per una notte, alla ricerca di un cambiamento continuo: dalle esposizioni classiche incentrate su un tema portante come il ritratto fino alle foto delle giovani tribù metropolitane, dalla scultura sobria ed elegante alla danza, passando per marionette, tessuti preziosi e tatuaggi. Cerchiamo nell’arte il suo significato primario: comunicare. Non è fondamentale la linea estetica di ciò che esponiamo quanto la volontà di condividere la creatività con la città e chi la abita, inserendoci nel tessuto urbano, con un rapporto di serena apertura all’esterno, verso quei contrasti composti come in un caleidoscopio che sono l’ambiente in cui ci muoviamo.

In oltre un anno di attività ciò che maggiormente conservo dalla percezione di Castello sono proprio queste sensazioni olfattive e visive estremamente forti, tanto forti da sembrare palpabili: gli odori della cucina che alla chiusura di MK si mescolano al rumore della strada, dei gabbiani e dei locali che iniziano ad animarsi, ci accompagnano fino a casa in una sorta di stanco ma vitale spleen, lungo vie e vicoli incredibilmente bui, capaci di catapultarci in epoche lontane, fatte di oscurità più dense, capaci di dilatare il tempo.

Una realtà meno poetica e soggettiva è che castello sembra non avere ancora bene definito il suo futuro: non c’è una vera musealizzazione dell’area con progetti di restauro e valorizzazione, sul felice esempio di luoghi come San Gimignano in Toscana che si è reso paese museo proteggendo i beni architettonici e paesaggistici e includendo nel centro storico solo determinati esercizi di tipo commerciale, per lo più attività artistiche e artigiane. Latitano i servizi commerciali e quelli al cittadino nella rocca di Cagliari, solo d’estate i locali notturni riescono a rendere viva la notte. La memoria, o meglio il senso della memoria, va perpetrato, rinvigorito da azioni mirate non solo alla conservazione e alla tutela ma allo sviluppo, alla ricerca di una crescita intelligente che rinnovi e al tempo stesso protegga il patrimonio che Castello offre, incredibile microcosmo in cui ogni cosa e persona paiono trovare giusta collocazione.

“Marie Corte . Sospesa a un Filo 

Le creazioni di Marie Corte sono ispirate dal mondo delle fiabe, dalla storia e dalla storia dell’arte, attingono dalla realtà quotidiana, dalla letteratura, abbracciando la cultura nella sua più ampia accezione.  Più di cinquanta ceramiche rigorosamente realizzate a mano, marionette d’altri tempi perfettamente calate del loro personaggio grazie ad una accurata ricerca per quanto riguarda i costumi, gli accessori, e i dettagli che rendono ogni bambola un pezzo unico. Grande approfondimento per il particolare e attenzione al ritratto; all’espressione, di difficilissima realizzazione, è affidato il compito di sintetizzare in piccolo spazio un’intera personalità.A corredare le marionette, dalle fate a Maria Antonietta, dai trapezisti al Don Chisciotte, tanto per citarne alcune, i testi redatti in esclusiva da Valeria Cannas. Alle sue rime l’onere di raccontare allo spettatore la vita, le aspirazioni, le colpe di ogni singola bambola. Esistenze in miniatura con un passato, un presente e un futuro che offrono testimonianza elegante e silenziosa a chi guarda, lo attraggono a sè come il canto delle sirene, lo stregano e conquistano. Storie tragiche e incosciente gaudio, leggerezza onirica e concreta realtà. Tutto questo è il lavoro che Marie Corte ha scelto di esporre da Mk Spazio Cultura, con una minuziosa ricerca di ambientazione, perchè ad ogni pezzo sia concessa la necessaria prospettiva, perchè tutti i particolari vengano alla luce insieme alle ombre e perchè il racconto sia completo.Sospesa a un filo è la condizione della marionetta, ma è la nostra condizione di uomini.Un filo anche narrativo che si dipana nello spazio e nel tempo lambendo terreni cari alle memorie dell’infanzia, dei libri, dei giochi.Un intreccio indissolubile tra realtà e fantasia difficile da distinguere e che Marie Corte ingarbuglia volontariamente mescolando gli elementi della storia e della cultura con quelli dei suoi sogni come farebbe una maga con gli ingredienti nel calderone magico.Scriveva William Shakespeare “Noi siamo della materia di cui sono fatti i sogni, e tutta la nostra vita è cinta di sogno”

 

“Eva Bachmann Above & Below”

Eva Bachmann guarda alla città con occhi completamente nuovi rispetto al passante disattento, cogliendo dettagli dal sapore poetico e quasi romantico. La desolazione, il grigiore e il silenzio delle periferie divengono nei suoi lavori come note armoniche di un’esecuzione operistica, dove tutti gli elementi, anche i più nascosti, contribuiscono alla buona riuscita dell’insieme. Ecco che quindi, spaziando tra le tecniche di pittura, ceramica e fotografia, Eva Bachmann restituisce un’immagine della città vissuta a pieno in ogni suo particolare e anfratto. Tagli diagonali su macchinari in disuso, industrie dismesse che assurgono a simboli monumentali, prospettive rese confuse dalla lavorazione della materia. Questa l’arte che l’artista inglese propone con grande eleganza e sobrietà, equilibrio e armonia sono infatti caratteristiche evidenti del suo lavoro. La Bachmann guarda agli spazi aperti e alle strutture architettoniche come libri da cui attingere storie meravigliose, restituisce le linee prospettiche anche sulla ceramica in modo sapiente, elimina da questo processo creativo la figura umana per rivelare gli spazi in maniera totale. I luoghi di Eva Bachmann sono deserti, l’uomo è completamente assente, forse ha abitato gli edifici, le case e ha lavorato ai macchinari che ora sembrano congelati in un non-tempo, ma da essi pare lontano.Questo processo di esclusione della figura umana non va necessariamente interpretato con malinconia, il colore infatti viene steso in maniera calda e avvolgente, crea una sorta di piacevole torpore alla vista ed esclude ogni amarezza sentimentale.

Affascinata dal cemento e dalla tecnologia la Bachmann regala storie alla portata di tutti, gioca col segno e con gli oggetti per smuovere chi osserva e invitarlo a ricordare e a capire. Above & Below, sopra e sotto, il visibile e il sommerso, terreno di indagine non solo artistica ma anche antropologica e sociale.Con grande attenzione e sensibilità la Bachmann ci permette di guardare agli ambienti che abitiamo senza viverli davvero, a riconoscere la bellezza pura di una linea architettonica che svetta verso il cielo, la poesia e la forza insite nel ferro di vecchi macchinari da lavoro, in un piacevole gioco altalenante tra realtà e memoria.

 

“Alessandro Arba my city

Si può vivere la città in molti modi, la si può abitare attraversandone strade e piazze in maniera distratta, la si può guardare senza vederla, automaticamente. Alessandro Arba invece osserva la città e la sente. Percepisce il reticolo stradale, le prospettive sovrapposte dei palazzi, le architetture straficate nel tempo, i vuoti e gli equilibri che sovrintendono alla realtà urbana. Artista giovanissimo e poliedrico, Arba descrive con eleganza i luoghi in cui ci muoviamo, con la dovizia di dettagli che solo un occhio critico e sensibile può cogliere. La sua tecnica mista, che spazia dall’olio su tela alle sperimentazioni con tessuti e resine, si caratterizza per un tratto definito, preciso ed estremamente raffinato anche laddove sembra essere accennato o schizzato rapidamente. Avvezzo ai grandi spazi all’aperto, ai graffiti e all’installazione urbana, Arba concentra gli sforzi nel raccontare storie cittadine in cui si legge la traccia dell’uomo nelle emanazioni materiali, ne si intuisce la presenza senza mai vederlo. La vita nella città ha quindi come protagonista la città stessa, che si manifesta attraverso tutti i suoi elementi in modo estremamente comunicativo. Non viene nascosta la base fortemente grafica delle opere in mostra dalle macchie di colore, studiate ed elaborate soprattutto nei lavori che vedono la presenza dell’acqua, per esempio nelle pozzanghere. Arba studia i riflessi delle architetture sull’acqua, ne restituisce corpo e anima con un sapiente lavoro di luci e ombre e il risultato ricorda talvolta un elegante sintesi tra Escher e Turner, per l’abile scelta di mescolare insieme elementi architettonici tipicamente grafici e nuvole di colore diluite e fluide per descrivere l’acqua. Il suo modo di avvicinarsi alla street art è originale e raffinato, con accenti urbani ma anche romantici nel taglio delle opere e nella scelta narrativa che ne evidenziano la sensibilità umana ed artistica.Raba, questo il suo nome d’arte, gioca in modo serissimo con l’ambiente in cui ci muoviamo, ne ripropone l’ossatura con esito davvero affascinante e ci costringe con grazia ad accorgerci di tutti gli angoli e gli scorci che viviamo distrattamente ogni giorno. Alessandro Arba nasce a Leeds in Inghilterra nel 1986, all’ età di sette anni si trasferisce in Sardegna, dove inizia il suo percorso aristico al Liceo Artistico Statale di Cagliari.Dopo essersi Diplomato va a studiare a Firenze dove frequenta l’Accademia delle Belle Arti di Firenze, si trasferisce poi a Milano dove attualmente vive e frequenta il terzo anno all’ Accademia delle belle arti di Brera. La sua passione è sempre stata il disegno, durante gli anni è riuscito ad imparare nuove tecniche avvicinandosi allo stile street art, e alla grafica.

 

“SCHATTENTANZ -collettiva fotografica  ”     

 La controcultura Gothic, chiamata Dark in Italia, è un “prodotto derivato” dalle ultima grida del movimento punk, alla fine degli anni settanta. Dal punk il gothic eredita il gusto per la provocazione vissuta però in maniera meno irruenta e distruttiva e più interiorizzata. Il nero dei vestiti più che andare contro l’omologazione della società borghese è un monito, un silenzioso promemoria rafforzato da riferimenti culturali che spaziano dalla letteratura al cinema fino all’arte. Il dark si nutre dei simboli della decadenza, cerca nella cultura il declino dell’uomo e lo espone, si espone offrendosi in sacrificio, con il suo elegante diniego. Affascinato da tutto ciò che è tenebroso sceglie di esprimersi spesso con la propria immagine, senza bisogno di parole. Il distacco propugnato dalla filosofia di Epicuro, il languore doloroso dei Preraffaelliti, l’oscurità esaltata nei versi di Baudelaire, sono solo alcune delle rocce su cui i Dark posano le basi della loro controcultura. Per oltre tre generazioni questa identità con la sua musica e la sua moda, si è evoluta attraversando il tempo e mutando veste senza tradire mai del tutto le origini, semmai allargandosi ad altre realtà underground, abbracciando frange Metal e derive Industrial, fino a spingersi verso il colorato mondo dei rave e della musica elettronica. La scena attuale differisce in maniera evidente dalle precedenti: l’avvento di internet, la commercializzazione di un’immagine ormai sdoganata dai mass media e la confusione dovuta al mescolarsi dei generi musicali hanno creato una generazione meno legata alle radici culturali storiche del Gothic e più vicina a fenomeni del mainstream sia musicali che cinematografici. Con questa mostra alcuni giovani artisti sardi hanno cercato di restituire linfa e vitalità al fenomeno attraverso immagini fotografiche ispirate alla cultura e al sentimento delle origini del movimento Gothic, ma anche ritratti in grado di restituirci la contemporaneità di una scena in continuo mutamento. C’è grande attenzione per il ritratto intenso, più profondo dell’immediatezza di un’immagine accattivante, e teso a indagare l’interiorità, quelle fantasie e illusioni oniriche tanto care al popolo in nero. E se la prima ondata del movimento imponeva un edonismo tenebroso in risposta al colorato quanto superficiale yuppismo imperante nei primi anni ottanta, oggi abbiamo una stratificazione maggiore, una scena variegata in grado di lambire correnti apparentemente opposte o in aperto dissenso con le origini del genere. Oggi il dark ha perso buona parte della sua creatività a livello d’immagine, ma è soprattutto il singolo che mantiene in vita l’entusiasmo degli esordi e questo fa si che ancora all’interno di questo panorama underground si muovano realtà musicali, artistiche, e iniziative d’intrattenimento, moda, spettacolo, perché un certo sentimento e un gusto per gli aspetti oscuri e inconsueti dell’esistenza umana fanno parte dell’uomo e non possono smettere di esercitare fascino sulle generazioni future. Percy Bysshe Shelley, poeta e scrittore molto amato dalla scena, definiva l’attrazione verso l’ignoto, il misterioso e  l’oscuro  “la tempestosa bellezza dell’orrore”.

“Felice Salis PEDRASA”

Felice Salis è uno scultore che utilizza materiali naturali (pietra, legno, granito, cortecce) per realizzare opere estremamente vicine ad un concetto di natura e di identità, istintive e primitive. Il ciclo che presenta per altrArte è basato sui quattro elementi: Terra, Aria, Acqua, Fuoco. Elementi presenti con valenze positive e negative nella nostra Isola e ai quali Felice Salis affida il messaggio della sua creazione artigiana. I materiali plasmati, modellati, incisi sono concepiti in chiave quasi animista e rispettano le asperità naturali senza troppe forzature e concessioni alla morbidezza estetica della linea, perseguendo una concezione del bello decisamente personale ma sempre armonica. La volontà di mantenere un contatto con la tradizione artigiana è palese, così come la voglia di siglare un rispettoso patto con la natura. Questa è la base del lavoro che da anni il giovane artista di Soleminis ha intrapreso, lontano dalle luci artificiali delle gallerie d’arte e più vicino a realtà intime e concrete. Anche l’allestimento risente dell’attaccamento di Felice per la Sardegna: circoli di pietra che ricordano i bivacchi dei pastori e dei viandanti, piccoli percorsi segnati dal profumo delle erbe aromatiche e da pozze d’acqua da cui emergono le sculture come fossero parte dell’ambiente, del paesaggio stesso. Alle pareti tracce di fuochi, segni di carbone, parole evocative, dal chiaro significato simbolico ancora una volta in forma di cerchio, come fasce da lutto da portare al braccio della nostra martoriata Isola. Le due sculture posizionate lungo le tre finestre della sala sono la prova della vita che c’era e non c’è più, sgretolata dal Fuoco e accolta dall’Aria. Un timore ancestrale verso la dea Madre Terra dispensatrice di frutti, trasformatrice di energie alla quale tornare con grazia. Poi l’Acqua, da venerare con devozione e rispetto, specchio naturale e culla della vita. Così sono le pietre e i legni, il semplice sasso e le sabbie, il duro e impenetrabile granito, che mantenendo intatti inclusi, colori e odori, aiutano a trovare e stabilire un contatto. Un bisogno profondamente sentito dall’artista e bene esplicato nel ciclo Pedrasa” creato in esclusiva per la rassegna altrArte: realizzazioni più legate al concetto che al segno, meno votate all’aspetto estetico e più volte raccontare contenuti, simili a libri pieni di storie da leggere e interpretare.

“Stanze tirate a Lucido”

Stanze Tirate a Lucido nasce dalla precisa volontà di riflettere sul fenomeno del social network come Myspace che riscuote sempre più successo nella rete internet.
Internet, gigantesco contenitore dalla capienza sconosciuta, un enorme allinearsi di contrasti, di differenze apparentemente appianate, di esagerazioni teatralmente caricate. In un mondo virtuale che racchiude in sé il bello e tutto il suo contrario in un amalgama a volte scintillante a volte oscuro come le tenebre profonde, le Lucido Sottile si muovono e brillano di una luce illuminante fatta di ironia e consapevolezza.
A metà tra teatro, performance, danza e arte, questo progetto rispecchia perfettamente il nostro tempo: è veloce, frenetico, ogni sollecitazione è consumata con erotico cannibalismo mediatico dove anche gli atti estremi divengono quotidianità.
Un quotidiano che unisce opposti, fagocita le differenze fregiandosi della propria ostentata unicità. Lucido Sottile ci mostra come si paga con una moneta a due facce il conto delle nostre vite spese su internet in interminabili viaggi cibernauti. Perché di fronte al dilagante fenomeno delle community on line dove persone agli angoli opposti del pianeta dialogano con la consuetudine prima riservata al vicino di casa in carne ed ossa, si resta un po’ spiazzati. Da un lato abbiamo la possibilità di comunicare e percorrere il globo intero dedicandoci allo scambio e alla ricerca, dall’altro rischiamo un progressivo inaridimento del contatto personale mediato dalla rete internet a scapito dei veri rapporti umani.
E in questo cyber spazio realizzato in collaborazione con artisti affermati ed esordienti si muovono gli interventi estremamente elaborati e concettuali delle Lucido Sottile che dopo lungo studio hanno individuato delle tipologie umane ben precise presenti sulle community e ne hanno fissato i caratteri con performances di forte impatto e coinvolgimento emotivo. In una società vampira divoratrice di beni di consumo di massa l’artista diventa momento di pausa riflessiva, crea un ponte di idee tra il reale e il virtuale senza dare necessariamente un giudizio, ma solo raccontando la dinamica delle cose.
Sette stanze, sette possibilità di esplorare e conoscere.
Ed ecco che ci affacciamo nello scintillante mondo delle lolite: fanatiche del gadget, del “cute”a tutti i costi, dei rivestimenti brillanti e dei colori creati dallo scenografo Filippo Grandulli e impreziositi dalle opere di Silvia Argiolas e Silvia Idili, due artiste che giocano con il colore e con l’ambiguità delle immagini infantili. Qui si muove Hiruko Shigenori giapponese, studentessa di 18 anni, impersonata da Ombretta Pisanu.
Incontriamo il suo apparente opposto nella stanza dark, dove Morrigan (Antonella Puddu), rigorosa ragazza in nero, crede nella Wicca e alleva insetti, con gli interventi di allestimento e le fotografie esclusive degli esordienti Giacomo Macis e Valeria Spiga.
La stanza della riservata scrittrice Isottah Romanif (Michela Sale Musio) è affidata a Gabriele Pais: hi tech, moderna, spaziale, contemporanea ma assente di interazione: lei è troppo impegnata a scrivere se stessa con il materiale più prezioso al mondo, il suo sangue, per curarsi degli spettatori. Pais ha creato dei richiami visivi molto forti alla performance di cutting delle Lucido Sottile in questo spazio, individuando un ponte solido tra la sua attuale produzione artistica e quella delle attrici.
I pannelli e i ritratti realizzati da Ermenegildo Atzori, dissidente convinto del fenomeno dei social network, caratterizzano la stanza difettosa: sapienti giochi di luci creati da Stefano Delitala (light designers delle sette stanze) contribuiscono a suggerire forme e idee in movimento nello spazio della non connessione. ll performer è Gabriele Vaccargiu, Disconnesso. Rimane un mistero il funzionamento o meno di questa stanza.
La stanza della Mistress Severya (Tiziana Troja), realizzata da Erik Chevalier, artista affermato e di grande versatilità, riflette con estrema eleganza l’algida padrona che la abita: i suoi schiavi, gli strumenti di lavoro e solo qualche dettaglio appeso alle pareti sono gli unici arredi ed ornamenti ammessi in questo luogo. Il percorso prosegue con una stanza ancora più inquietante, dove le violenze sono suggerite e mai mostrate in un crescendo che inchioda lo spettatore: è la stanza dell’orco, creata da Jana Frankhen, artista internazionale attenta al contemporaneo e dotata di raffinato gusto minimale. Ad animare lo spazio è il performer Alberto Lorrai.
Si conclude con la sala prove musicale dove bands, dj e vj si esibiscono in un continuo live concert. Uno spazio di esordio ideale, il classico garage dove tutti i musicisti hanno mosso i primi passi è stato ricostruito con creativa perizia dallo scenografo Salvatore Aresu e completato dalle esclusive opere dell’apprezzato pittore sardo Giuseppe Carta e dalla fotografa Valentina M. A mettere in connessione i sette spazi virtuali/reali è l’opera di Stefano Orrù, che in esclusiva per la mostra ha creato una personale visione della dea Madre, rappresentata da una scultura polimaterica dipinta che rappresenta una vagina dispensatrice di vita e che si riabbraccia nel momento della morte per divenire nuova energia.
Caronte narratore dell’inusuale viaggio è l’attore Daniele Meloni, una Room Maid improbabile, che invita gli spettatori a riflettere sul mondo virtuale e quello reale.
Stanze tirate a Lucido è un vero e proprio spaccato dei nostri tempi, denso di contenuti artistici e collaborazioni importanti, che racconta il presente con uno sguardo sul futuro prossimo.

 

“Tiziana Martucci FUSI ORARI    RITRATTI CONTEMPORANEI”

“Punti di vista, figli dello stesso istante e fratelli inconsapevoli. Qui, a diverse latitudini, il tempo diventa luogo d’incontro, dove guardarci in faccia per riconoscerci altrove.”

Il percorso espositivo di Tiziana Martucci nasce dalla precisa volontà di catturare momenti di grande spiritualità nella vita delle persone, orari precisi, in luoghi diversi e lontani nel mondo, ognuno con il suo fuso orario. Attraverso un linguaggio pittorico che affonda le sue radici nelle divagazioni multiformi di Klimt, nell’estro dei protagonisti della Secessione Viennese, ma che deve tanto anche al Surrealismo di Bretòn e Dalì, l’artista racconta una storia. La figura umana, impreziosita dall’uso del color oro, trascende spesso la sua natura fisica per seguire un itinerario legato ai sentimenti e agli stati d’animo e volto all’interpretazione e all’analisi di questi. Le figure sono comunque dotate di una dinamica fisicità, insistono su pose e movenze ricercate, forse dovute anche all’esperienza dell’artista come attrice, abituata ad usare il proprio corpo come strumento di espressione e comunicazione. Nelle opere presentate per altrArte influenze dalla storia dell’arte si amalgamano sapientemente con un approccio fresco e moderno che rende peculiare lo stile di Tiziana Martucci. Le reminescenze sono elaborate in un sistema di citazioni improntate alla memoria e all’omaggio, si compenetrano con le creazioni contemporanee contribuendo a creare una trama curiosa e affascinante. I moti dell’animo sono raccontati con grande attenzione e partecipazione, facilmente condivisibili dallo spettatore attento al gesto e alle espressioni. Una galleria non usuale di ritratti della contemporaneità, volta ad una certa introspezione ma ugualmente aperta a chi sa osservare. Il concetto, lo spleen, risiedono nei forti contrasti di colore che caratterizzano le sue tele, e che ben rappresentano la condizione tormentata e spigolosa del mondo moderno, albergano nel gesto e nella postura delle donne dipinte in ambienti privi di riferimenti fisici e reali, come fossero avulse dal caos esterno per ripiegarsi a cercare una riflessione intima e privata. Proprio per questa ricerca di forti contrasti sia nella rappresentazione della figura umana che nell’uso del colore, Tiziana Martucci si pone, con questo ciclo produttivo, nel panorama dell’arte figurativa contemporanea in modo personale e originale.

“Gabriele Pais Valium”

Gabriele Pais, giovanissimo artista cagliaritano, si muove da un’esperienza di studi che lo ha portato fino all’accademia d’arte di Venezia. Da piccolo inizia a sperimentare con scultura e pittura, concentrandosi soprattutto su quest’ultima e lavorando sulla ricerca di se stesso attraverso il tratto pittorico. Ha operato anche come writer, imparando la lezione del graffito e riproponendola poi in chiave pittorica nella successiva produzione artistica. Affascinato anche dalla fotografia ha elaborato un ciclo di manipolazioni della propria immagine con interventi a metà tra fotografia, pittura e installazione. Questo ciclo pittorico gli è valso la collaborazione con Maria Cristina Madau e Jean Marie Barotte che lo hanno invitato a Milano per partecipare ad una collettiva di loro ideazione. All’immagine fotografica Gabriele sovrapponeva in questo ciclo interventi ispirati a geometrie di matrice pittorica, con colorazioni in rosso acceso, bianco e nero. La pulizia d’ insieme, quasi asettica, si mantiene nella nuova produzione studiata in esclusiva per altrArte. L’immagine fotografica è sparita per lasciare posto al solo tratto pittorico che torna a somigliare ad un graffito parietale. I segni minimali tracciati da Pais hanno tanto del primitivismo e del neo primitivismo quanto del mondo dell’infanzia, dove simboli, linee e tratti complicatissimi come gomitoli si sciolgono in concetti semplici e chiari. Un’ ulteriore novità in queste opere, costruite sull’assenza e la privazione della figura umana per lasciare spazio solo al gusto essenziale per il tratto, è l’introduzione da parte dell’artista di una diversificata e maggiore colorazione delle creazioni che conferisce un aspetto più corposo ad ogni singolo pezzo. La composizione si addensa nel centro del quadro che diviene il punto focale per chi osserva; il margine, privo di segni, viene lasciato libero per catalizzare l’attenzione verso il centro con un effetto tale da restituire una certa profondità. Gli elementi chiave di questa produzione su vari materiali (plexiglas, vetro, legno) sono la lingua, utilizzata come metafora dell’intera persona umana, e il cuneo, una punta che rappresenta tutto ciò che arriva dall’esterno. Il rapporto interno/esterno è quindi giocato su questi due soggetti che insieme divengono emblema della vita stessa, degli incontri, dei passaggi, delle esperienze. La figura umana, seppure scomposta e inserita in questo discorso di elementi, ricompare nell’autoritratto dove l’artista fa confluire l’intero percorso espositivo, utile per capire meglio le fasi di elaborazione, lavorazione e  interpretazione della visione artistica proposta. Il sempre vivo gusto per la sperimentazione è invece palesato dalla presenza in sala di una piccola scultura in creta che raffigura un uomo trafitto da un cuneo, nessuna concessione ai dettagli anatomici o a velati significati di violenza, ma semplicemente un riassunto in chiave tridimensionale del concetto di osmosi tra elemento interno (lingua/persona) ed esterno (cuneo) presenti nella vita di ciascuno di noi. A bordare ogni opera l’impronta digitale dello stesso Pais, come firma unica e inconfondibile che si rivela efficace marchio di fabbrica. L’allestimento, molto lineare, riprende negli intenti le opere, con un significato d’insieme improntato alla leggerezza e alla semplicità.

“Dorsello WHO IS IEM82?”

IEM82 aka Dorsello nasce a Cagliari nel 1982, fin da piccolo manifesta grande interesse verso il disegno e la pittura. Interesse che si concretizza con gli studi, con i corsi e soprattutto con l’osservazione diretta dell’arte e delle sue molteplici forme in giro per il mondo. Viaggiando e lavorando in svariati luoghi dell’Europa come Amburgo e Colonia prende contatto con la scena dei graffiti, subito influenzato da una realtà metropolitana molto forte e dai vari artisti delle crew come cnskillz – tws. Partendo dall’attività di writer Dorsello ha poi migliorato le sua capacità pittoriche anche da un punto di vista tecnico, variando lo stile e personalizzandolo fino ad arrivare ad una peculiarità che lo rende riconoscibile. Le opere presentate per altrArte documentano un immaginario d’ispirazione prettamente illustrativa, futuristica e contemporanea. Le tele, realizzate con acrilico e tecnica mista, raccontano lo stile urbano e le suggestioni metropolitane dell’artista. All’interno delle illustrazioni si spazia dai classici Graffiti fino all’inserimento di personaggi astratti e complessi, misteriose figure create con una penna biro. Sfrutta l’utilizzo di qualsiasi tecnica pittorica e disegna di tutto, in continua evoluzione. Adora dipingere le grandi superfici per non avere limiti di spazi,ma lavora anche su tela e con vari programmi grafici al computer. Attualmente vive a Cagliari e collabora con organizzazioni come Basstation, Laboratorio Follevolo e altri.Dalla volontà di collaborare nasce anche la performance studiata per l’inaugurazione della mostra insieme a Gioia33 e Bravopie: pittura dal vivo su supporti e materiali di vario tipo, con l’utilizzo di strumenti diversi, e gusto per le installazioni, in questo caso una grande macchina gioiello che diventa bara per ammonirci sulla preoccupante indifferenza verso ciò che ci circonda. Il quotidiano diventa oggetto di analisi da parte degli artisti, arte che conquista spazi che normalmente non le appartengono, messaggio esterno da incorniciare e guardare con occhi diversi. La dinamica e lo spirito della performance inaugurale sono riproposte nel video realizzato da Francesca Mulas e Alessio Putzolu che hanno documentato l’evento e raccolto impressioni e testimonianze. A lungo protagonista involontaria di lunghi dibattiti sulla sua essenza di pura comunicazione per alcuni, e di atto vandalico per altri, la Street Art inizia finalmente anche in Italia ad essere considerata una forma d’arte non minore, e oggi attira l’attenzione di critici, pubblico e media riscuotendo un consenso diffuso. Essendo una spontanea e sincera comunicazione dei figli della città la Street Art manifesta sentimenti, identità e caratteristiche spesso uniche dei luoghi in cui viene proposta diventandone in qualche modo specchio o racconto.

  

“Francesca Randi le stanze del sogno”

La fotografia per Francesca Randi è un mezzo d’espressione e comunicazione completo. Partendo dal dato oggettivo del soggetto narrato, attraverso lo studio delle foto esposte in alcune personali, ha seguito un percorso che è divenuto quasi pittorico e letterario. I temi con cui sceglie di popolare i suoi scatti trasmettono senso di abbandono, decadenza, solitudine, magia: siano gli arrugginiti scheletri delle navi ancorate in un porto industriale, siano gli agghiaccianti corridoi ingombri di letti in ospedale, o la nova serie “le stanze del sogno“, l’intento resta sempre quello di raccontare una storia. Ultimamente ha perfezionato il suo cammino artistico orientandosi sul fascino dei simboli, del non detto, della metafora. Se ne ricava un’inquietudine suggerita, velata e non gridata che è decisamente più incisiva rispetto all’imperante gusto per le foto shock.Anche laddove ci sia una profusione di simboli, non sempre immediatamente traducibili, le composizioni si caratterizzano per una sobria eleganza. L’immagine di base parte sempre da un’inquadratura semplice con uno o più punti di fuga e uno o più soggetti rappresentati. La cura maniacale del dettaglio si sovrappone poi all’immagine di base arricchendo la scena di elementi in grado di definire la storia. E allora i simboli trascendono il loro significato per ampliare la gamma delle possibilità interpretative, rubando da illusioni surrealiste e dall’ottocento decadente, facendo incursioni in macabre wunderkammer e abbracciando provocazioni futuriste. Il risultato finale è una rappresentazione che ha del reale quanto dell’onirico, rispettata anche nella scelta dell’allestimento: un mondo sospeso, una sorta di limbo fantastico dove elementi quotidiani, oggetti e arredi si mescolano a visioni strappate alla dimensione delle fiabe, con animali dal fascino evocativo e figure umane ambigue e confuse.Su questi sfondi si muovono i personaggi protagonisti, con costumi e accessori forti, sguardi disincantati assorti in una meditazione statica, allegorie fantasma di una strana, curiosa umanità. Per altrArte la Randi porta diciotto fotografie di grande formato che racchiudono buona parte degli elementi cari al suo stile compositivo e formale oltre ad un ampio assaggio dei riferimenti culturali e artistici a cui si ispira per creare suggestioni visive dense di particolari.

” Stefano Crespellani, Naufragi

Le opere di Crespellani esposte nella Sala della Terrazza sono nate come biglietti d’auguri per persone a lui care, dopo anni di silenzio creativo. L’artista li ha realizzati attribuendo loro un significato personale profondo, ma non tutti sono stati spediti e riunirli in una mostra è un altro modo per arrivare ai destinatari, per far giungere il proprio messaggio. Il naufragio, inteso come smarrimento e volontà di ristabilire le priorità per ricominciare a vivere, si riferisce ovviamente alle esperienze che la vita riserva ad ognuno di noi, esperienze che ci spingono alla riflessione. Lo stesso Crespellani lo definisce come un momento forte della conoscenza, una base simbolica da cui ripartire per ricostruire e ricostruirsi, attraverso la bellezza, il senso, l’arte. Il naufragio è crudele, ma generoso a suo modo, perché perdere tutto costringe a riappropriarsi delle piccole cose, a reinventarsi, ad andare avanti. “Lo sviluppo è un viaggio con più naufraghi che passeggeri”, ci ricordano voci sempre meno isolate. Riordinare le priorità è un bisogno collettivo straordinariamente urgente. Questa urgenza chiama in causa  anche l’arte. Arte delicata e piccola nel formato, con un gusto  spiccato per gli intrecci fatti di geometrie e colori, linee che si incontrano fondendosi nel segno, armonizzate dall’alternanza di spazi pieni e vuoti, di superfici bianche esaltate dal colore. Frammenti di storie umane fatte di immagini, poesie, cose non dette, racchiuse nelle circa quaranta opere in mostra. Frammenti estremamente eleganti e comunicativi in cui forme, contrasti e sentimenti trovano giusta ed equilibrata collocazione. Composizioni che sembrano trattenere le soste e le corse della vita, nella staticità delle disposizioni geometriche e nelle accelerazioni pittoriche del segno grafico. Si intravedono parole che sommerse dal colore vengono comunque alla luce, e che aggiungono una profonda sensazione di vissuto, di ragionato. Il risultato finale è un raffinato amalgama di elementi pratici, come il colore, il tratto e la forma, uniti al sentimento, alla comunicazione, e a quel messaggio di augurio per una rinascita spirituale sempre auspicabile.

“ROOM 342”Alessio Carrucciu, Paolo Carta, Alessio Massidda, Giorgio Plaisant

Room 342 è un “work in progress” che fa capo a quattro artisti cagliaritani: Alessio Carrucciu, Paolo Carta, Alessio Massidda, Giorgio Plaisant.L’idea di base per questa mostra, prima di una serie, si deve al casuale ritrovamento di un diario personale appartenuto all’inglese J.P.: il ragazzo ha lavorato in un hotel londinese e ha lasciato scritte alcune impressioni sulla sua curiosa esperienza. Ciò che viene mostrato in room 342 è una parziale risposta alle domande che gli artisti si sono posti dopo aver letto il manoscritto: un protagonista senza volto, una sequela di elementi mutevoli, una confusa panoramica su oggetti e persone di passaggio, suggestioni velate dai contorni indefiniti. La mostra si articola in due fasi distinte: un progetto di installazioni quale probabile conclusione della storia, una rappresentazione visiva delle ultime righe scritte da J.P.: “Ho pensato di impazzire. O di vivere intrappolato in un sogno per tante di quelle volte che neanche mi ricordo più. Sta di fatto che la vita degli altri qui diventa l’unica cosa che conta e io ho annullato la mia. Non rammento di averne mai avuta una“. Una seconda fase riassume il tentativo di raffigurare “l’uomo senza volto” del racconto, come si fa d’impulso quando ci si appassiona ad un libro in cui il protagonista non è connotato fisicamente e ci sforziamo di immaginarlo in base ai dati in nostro possesso. La pluralità delle interpretazioni e degli stili fa si che l’esposizione abbracci molte forme d’arte: dalla pittura alla fotografia, dall’installazione alle suggestioni sonore e luminose. L’allestimento è improntato ad una scrupolosa ricostruzione, in bilico tra onirico e reale, della stanza dell’hotel e si completa con una doviziosa e feticista raccolta di oggetti simbolici dal fascino particolare. In questo spazio perfettamente ricostruito come un set cinematografico si inseriscono le creazioni dei quattro artisti cagliaritani, che hanno già all’attivo diverse personali e hanno partecipato ad importanti collettive. Ciascuno seguendo il proprio stile ha visualizzato il protagonista del racconto, ispirazione per una serie di creazioni pittoriche principalmente con uso di colori acrilici, mentre le installazioni di comune fattura e progettazione mostrano tecniche miste in perfetta armonia tra di loro, in modo fluido e mirato alla visualizzazione della storia scelta.

Daniele Serra ILLU(STRAZ)IONI”

“In un teatro dove l’uomo non è che mobilia, materiale di scena,

finzione senza futuro, ci muoviamo come marionette in balia degli eventi, di noi stessi,

delle paure e delle superstizioni che governano l’esperimento chiamato vita”.

Daniele Serra concentra la sua attenzione sull’illusione della libertà concessa all’uomo, sottolineando con le immagini quanto invece esso sia oppresso da un destino condizionato da paure ancestrali, quotidiane o religiose. La scelta di interpretare lo spazio espositivo come un teatro, così come la colonna sonora progettata e realizzata dal curatore esclusivamente per questa mostra, divengono parte integrante della stessa e non solo un contorno, in un amalgama di visioni, suggestioni musicali e luci. Ed ecco che dietro il sipario si aprono tre stanzette, ciascuna dedicata ad un timore diverso: turbamenti spirituali e religiosi, creature notturne, assurde crudeltà scientifiche. Piccole croci fanno capolino dal buio in questa mischia di solitudine, carne e macchine, ultimo baluardo di un’umanità perduta, retaggio culturale di un passato indecifrabile. Segno inquietante e salvifico che sembra non appartenere più al mondo che l’artista propone evocando un  fascino arcano insito nel simbolo ma privo ormai di concretezza nella realtà. I materiali industriali utilizzati per le scansioni che fanno da sfondo alle creature di Daniele Serra, sono scarti, lamiere, rifiuti non a caso scelti per raccontare sentimenti scomodi, disagi frenetici e immobili al tempo stesso, sono il palcoscenico perfetto in cui recita protagonista assoluta l’alienazione. Gli sfondi nella sua arte sono protagonisti quanto le figure, gli spazi, i colori, i materiali raccontano storie di solitudine e degrado. Scorci e paesaggi in bilico tra fantasie oniriche  e inquietante realtà. Corpi manomessi di gigeriana memoria (HR. Giger è l’artista contemporaneo svizzero che ha inventato il genere detto Biomeccanico) si sposano con una componente fumettistica elegante e mai banale anche quando propone dei cliché come vampiri e altre creature della notte. Atmosfere pervase di malinconia in continui trascoloramenti e accenni di luce. Luce che in queste opere diviene veramente antagonista del buio dominante. Daniele Serra, influenzato da fumetto, musica e letteratura si muove agilmente tra cimiteri in stile neogotico quanto tra i macchinari di industrie dismesse dove cavie umane sperimentano con apparente indifferenza il rapporto impari tra uomo e macchina. Echi di Metropolis, Nosferatu e altre pellicole dai risvolti foschi emergono  in certi dettagli  sotto forma di reminescenze e di ricordi, visioni metabolizzate dall’artista e fatte proprie. L’apparente confusione di tratti e sfumature è da imputarsi ad un effetto nebbia che le rende leggermente vaghe, sporcate e che trasmette una sensazione di indicibile “lontano”. Una poetica della malinconia per suggestioni visive che deve molto alla fascinazione letteraria e al romanticismo sepolcrale. Le creature spaventose e tormentate frutto del suo lavoro raccontano storie che a volte non vorremmo sentire ma che esistono nella realtà, che risvegliano paure remote mai sopite del tutto,  annidate dentro ognuno di noi.

  

“Alessandro Biggio Exul”

Alessandro Biggio, artista cagliaritano, inizia da autodidatta e arriva molto presto alle principali esposizioni collettive della città, ma si afferma anche attraverso mostre personali che evidenziano una costante ricerca di novità e ne raccontano il percorso artistico. I primi lavori sono caratterizzati da una pittura fortemente materica che non contempla figure umane o animali ma si avvale di linee, tratti non definiti e sfumature di colori primari. La ricerca pittorica lo porta col tempo ad accogliere elementi cari al primitivismo: segni che ricordano scarificazioni, tratti simili a graffi e lacerazioni che definiscono in modo essenziale sagome vicine alla pittura preistorica rupestre. Una tipologia pittorica che ha qualcosa di universale, elemento comune condiviso dalle popolazioni primitive di tutto il mondo e che qui si manifesta con un effetto che nell’insieme ricorda l’affresco, tonalità trascolorate che invitano alla riflessione e iniziano a far emergere geometrie quasi architettoniche. Nell’ultima personale sono proprio le architetture ad essere preponderanti: i colori primari bagnati e dilatati sono presenti in secondo piano rispetto alle strutture industriali fissate sulla tela ma in qualche modo ne offuscano la visione limpida e netta. Gli edifici cupi e scarni, coerentemente con il senso di vuoto palesato dalla sua produzione vicina al primitivismo, raccontano spazi abbandonati dall’uomo: prima erano le grotte inaccessibili, ora sono i fatiscenti capannoni industriali. Entrambi i luoghi parlano di vite passate, di un’umanità che non c’è più: Alessandro Biggio ne fissa il passaggio. I colori sono sempre gli stessi, si respirano la ruggine e i bitumi, ci si sporca e spaventa solo a guardare quelle arcate simili ad orbite oculari vuote. I lavori più recenti immortalano la vita che fu di questi luoghi, gli esseri che si sono mossi in questi spazi appaiono sulle tele manifestandosi come ectoplasmi. Ancora citazioni: dai ritratti funerari del Fayyum alle drammatiche e sbiadite foto che rimandano all’Olocausto, in una sorta di danza macabra che attraversa l’umanità. Giocando sull’ambiguità della parola luxe/exul Biggio crea eleganti e drammatici contrasti attingendo per i suoi personaggi alle tristi cronache dei viaggi della speranza che ogni giorno possiamo leggere sui giornali. La tecnica pittorica si fa sempre più raffinata  e meno materica: i grumi di colore si sciolgono, le pennellate si avvicinano alla delicatezza dell’acquerello, in netto contrasto con le forti citazioni che la ispirano e la scelta sempre più cupa delle tonalità. Un iter carico di simboli e suggestioni visive destinato ad una continua ed inesorabile evoluzione, fedele in modo dinamico ai dettami di una pittura lontana dal solo criterio estetico così come dall’aspetto puramente commerciale. Anche nella piccola scultura a forma di stella, creata non a caso da un impasto di acqua e cenere, precipitata, rotta, allegoria della perdita di orientamento e delle coordinate che determinano l’equilibrio, è possibile riconoscere questo iter fatto di segni e di contrasti. Opere più inclini al concetto che alla forma, alla riflessione indotta dalla visione di queste immagini in dissolvenza, dove echi cinematografici e poesia si sposano con la componente artistica, basata fondamentalmente su un preciso amore per il disegno e la pittura.

 

Giuseppe Bosich

Le opere di Giuseppe Bosich, artista poliedrico originario di Tempio Pausania, sono fortemente ispirate da un linguaggio simbolico dalle antichissime origini e che ha attraversato il mondo della storia dell’arte facendo capolino qua e là tra gli artisti di varie epoche e discipline, dal tardo medioevo, alla secessione viennese, fino alla metafisica e ai nostri giorni. Il linguaggio al quale mi riferisco non è solo legato al segno, alla cifra o al simbolo, visti nella loro accezione rinascimentale o preraffaellita per esempio, e cioè come allegorie più o meno velate ma pur sempre decorative, ma sembra riallacciarsi piuttosto ad un discorso più profondo, ispirato dall’alchimia, dalla filosofia, dalla spiritualità e dallo studio del pensiero esoterico. Da tutto questo bagaglio culturale difficile da gestire, e certamente da riassumere, deriva il leit motive, il fil rouge che attraversa le opere in mostra da Mk, allacciando tra loro le creazioni e restituendo a chi guarda delle composizioni fortemente ispirate. Tema principale dell’esposizione è l’allegoria dei quattro elementi portanti della natura: Aria, Acqua, Terra e Fuoco, i quattro elementi magici che costituiscono lo stesso soffio vitale. Il tema è affrontato sui tre livelli tradizionali fisico, animico e sprituale e si addentra nell’alchimia. Il simbolo diviene elemento narrante, le figure estrapolate da contesti immediatamente riconoscibili, come nella pittura surrealista e metafisica, si raccontano attraverso la rappresentazione di sè divenendo il centro nevralgico della composizione: le stesse forme si piegano alla forza narrativa celebrando il concetto più che la ricerca estetica. Stile astratto e stile figurativo si compenetrano divenendo obsoleti e riduttivi nei loro significati, troppo stretti per poter imbrigliare il soffio vitale che anima le dodici tele esposte. Elementi vegetali, oggetti, creature umane, divine e chimere si muovono in una sorta di amniotico sfondo/ambiente in cui le normali e conosciute coordinate spazio tempo sono prive di senso. La concreta delicatezza dei soggetti realizzati da Bosich regala una visione onirica a chi guarda e la sensazione che qualcosa non sia stato detto, che rimanga indecifrabile nei segni tracciati sualla tela, come una porta dimensionale aperta verso segreti mondi non immediatamente comprensibili. Geometria, volumi, colore, storia e simboli si amalgamano tra loro per conferire un’unica e riconoscibile impronta ispirata, quella di un artista che è anche uno studioso, con un occhio rivolto ad indagare i più profondi recessi dell’anima umana.

 

Diamante Murru

Tra i giovanissimi talenti che operano a Cagliari senza dubbio è da segnalare Diamante Murru. Ancora prima di terminare il liceo artistico Diamante si era già affacciata al mondo dell’arte a 360 gradi. Pittrice, fotografa, performer, body painter e amante dell’arte digitale ha iniziato prestissimo a costruire il suo curriculum che annovera, nonostante la giovane età, un gran numero di eventi in cui ha partecipato attivamente o di cui è stata protagonista. La più recente esposizione la personale De.Forme, inserita nell’ambito della Tattoo Convention sarda, affiancata alla performance Bio.Digital che si inquadra perfettamente nella sua produzione artistica attuale: autoritratti digitali in toni di viola e ghiaccio che comunicano fredda tecnologia abbinata a dettagli sensuali rubati al quotidiano. Grande influenza nella sua formazione è stata il pittore svizzero H.R Giger, monumento vivente al genere biomeccanico, molto in voga anche nel tatuaggio, padre di Alien, la terrificante creatura cinematografica che ha regalato una serie di film memorabili a partire dall’originale diretto da Riddley Scott. Da Giger Diamante Murru ha preso la passione per l’ ibridazione dell’uomo con la macchina, nelle sue opere il corpo viene trasformato in una sorta di bambola cibernetica programmata e dotata di impulso vitale che la stessa artista definisce “donna tecnologicamente avanzata”, legata all’ambiente che la circonda, in qualche modo dall’ambiente vincolata, capace di interagire con esso. Un percorso abbastanza coerente lega le prime produzioni a quella attuale, esistono infatti delle tematiche a lei molto care che, anche se trasposte in mondi differenti, mantengono una linea di contatto marcata e ben visibile: la figura umana, l’abisso, il silenzio. Tre elementi amalgamati in proposte differenti e spesso portate anche sul palco in alcune performance di cui Diamante ha curato la regia e la realizzazione. Parole come silenzio e abisso, evocano apparentemente significati negativi e oscuri, mondi in cui l’uomo si sente preda vulnerabile, ma per Diamante questo è invece l’ambiente ideale dove rifugiarsi per dare libero sfogo alla mente, alle metamorfosi, alla riflessione. Il silenzio e l’abisso sono i luoghi della genesi, dove nuove forme vitali trovano la serenità che consente loro di nascere e svilupparsi, aspetto molto evidente nel suo ciclo “abissi”in cui le figure umane mutavano in creature marine, addirittura in coralli. D’altra parte la vita si è generata nell’acqua dalla notte dei tempi e questo elemento è ancora presente nella produzione attuale sebbene in modo simbolico. La scelta dei colori del ciclo Bio.Digital non è infatti casuale e la freddezza quasi metallica dei soggetti e degli ambienti richiama l’acqua e conserva una sua matrice liquida e vitale anche nelle forme e nei dettagli anatomici. Anche gli elementi abisso e silenzio sono presenti, certo lontani dal buio amniotico delle profondità oceaniche, ma chiaramente riconoscibili nell’assenza di altre figure intorno al soggetto dei quadri: la “donna tecnologicamente avanzata” si muove sola, silenziosa ed elegante nello spazio vuoto fatto solo di oggetti, pareti e cavi, simboli della nuova metamorfosi. La sensazione che si ricava dall’osservare queste opere è molto vicina ai concetti di serenità, equilibrio, trasformazione. Ed ecco che allora gli abissi non ci paiono più quel luogo spaventoso in cui sentirsi persi ma un eremo felice dove elaborare il pensiero, scoprire nuovi anfratti dell’anima, dove curare il dolore e sciogliere il dubbio, dove è possibile fermare il tempo per donare a noi stessi nuova forma e nuova vita.

“Franco Casu Tutto a 0.99 cent”

La mostra del fotografo cagliaritano si compone di quadri di uguale dimensione e cornice, contenenti settantasette immagini fotografiche differenti, scattate su Polaroid e posizionate in maniera apparentemente casuale e approssimativa, su uno sfondo che lascia intravedere le stampe allegate alla cornice, tutte appartenenti all’iconografia sacra della religione cattolica. Sulla superficie del supporto applica una grafica ricorrente nella nostra quotidianità consumistica, che invita alla convenienza e all’acquisto. Questa installazione fotografica si basa su alcuni punti nodali che svelano la concettualità dell’opera e l’intento stilistico dell’artista. Ad iniziare dal supporto espositivo utilizzato per tutte le immagini: piccole cornici identiche, di scarsa fattura e di dubbia eleganza, simboleggiano la serialità dell’oggetto, la sua facilità di diffusione dovuta ad un dispendio economico ridotto. L’accessibilità a tutti è vantaggio e contemporaneamente perdita di bellezza, unicità e qualità. Ciò che è facile ottenere nella nostra società equivale ad un prodotto massificato e non differenziato, un’ omologazione ed un appiattimento dell’individualità del soggetto, che perde di densità e spessore, che annulla la possibilità di diversificazione e di affermare la singola identità. Diktat sociale quindi ma anche ironica provocazione sull’incongruenza che esso provoca se accostato ai nobili propositi umani quali intelligenza, sensibilità, creazione. Contrasto insolubile con l’opera d’arte, che invece dovrebbe essere unica, irriproducibile e personale. L’artista utilizza la Polaroid per enfatizzare maggiormente questo divario. Questa tecnica non consente per la sua concezione, di essere duplicata nella sua stessa forma e senza cambiarne irreversibilmente la natura. L’economico supporto che lascia la traccia del cattivo gusto, si fonde paradossalmente con l’opera creativa; espressione individuale dell’artista, tentativo di rappresentare la Bellezza. Altro contenuto concettuale parte dalla considerazione sull’inaccessibilità dell’arte contemporanea, data dal costo eccessivo delle opere ed un conseguente elitarismo del mercato e della diffusione delle opere stesse. L’artista gioca provocatoriamente con questa affermazione utilizzando la grafica applicata sull’opera, rimarcando la convenienza dell’oggetto proposto e incitando alla sua fruizione. L’offerta speciale sancisce la possibilità di appropriarsi di una porzione di bellezza, ma pone anche l’interrogativo sulla conversione dell’arte in merce da vendere, oggetto da comprare. Ultimo ma fondamentale elemento analitico, quello che riguarda le immagini esposte; Frame che rappresentano e svelano un vissuto, sempre privato, intimo, introspettivo. Un corpo, un luogo, una luce, una storia. L’immaginario fotografico di Franco Casu  mostra delicatamente un mondo che non ci appartiene ma in cui possiamo ritrovarci; uno specchio che riflette immagini ed emozioni, una fessura tra la parete che divide il nostro vissuto da quello altrui, sulla quale egli ci consente di appoggiare virtualmente il nostro occhio, per raccogliere, riconoscere, scoprire, commuoversi. Il corpo così rappresentato è riflesso dell’anima, mai opposto ad essa, ma elevato e puro di una sacralità autentica, che gli dà la possibilità di essere affiancato senza blasfemia, ad un effige religiosa.

 

“Ermenegildo Atzori Ombre INforme”

 Per altrArte Ermenegildo Atzori, giovane artista autodidatta, propone sei sculture corredate da otto pannelli. Il suo percorso creativo ha raggiunto nuovi importanti risultati dopo un lungo periodo di elaborazioni e sperimentazioni continue, sia per quanto riguarda le forme che le tecniche. Dal bozzetto iniziale alla realizzazione vera e propria, Atzori applica tutte le conoscenze di anatomia e influenze artistiche (da Clemente Susini a H.R. Giger, da Giacometti a Beyus) per interpretare l’uomo e l’ambiente da un punto di vista strettamente personale. Il nuovo oggetto di indagine è l’ombra: le sculture, private in buona parte della loro fisicità, sono esili rispetto a quelle della precedente produzione e si concentrano sull’idea e sul concetto piuttosto che sul corpo. Ermenegildo non tralascia però di utilizzare quelle particolari tecniche che rendono peculiari le creazioni che provengono dalla sua officina: acidi corrosivi deformano i profili anatomicamente curati, combustioni laceranti rendono spigolose le superfici. L’elemento igneo costituisce l’atto finale, sospeso in un significato ambivalente di distruzione e rinascita; un fuoco simbolo di caos e casualità dove la materia assume di per sé un significato, in un insieme di componenti fuse come in un golem, un agglomerato dotato di vita propria. Attratto da aspetti fortemente contrastanti dell’esistenza, l’artista si muove su binari riconducibili tanto al mondo della fantasia quanto alla più industrializzata delle realtà, spesso mescolando le due dimensioni in apparenza inconciliabili. La fugacità dinamica dell’ombra, il mistero che porta con sé sono un terreno di indagine perfetto per Ermenegildo Atzori, che ama misurarsi con ciò che è diverso, sotterraneo, invisibile e non facilmente catalogabile. Per questa mostra l’artista, insieme a Samuele Dessì, ha composto anche una colonna sonora originale, parte integrante del progetto Ombre INforme.

 Fernanda Sanna“il tempo è un insetto sul vetro”

 Raccontare problematiche quotidiane, ossessioni attuali, fissare su tela illusioni della mente in grado di fuorviarci. Questo è in sintesi il lavoro di Fernanda Sanna, opere pittoriche dense di significati e di colori, presentate per la rassegna altrArte. In primo piano il vero spettro dei tempi moderni: la nostra immagine.Distorta, lacerata, tormentata, perennemente sottoposta ad un giudizio estetico che mai si avvicinerà a quello proposto con pericolosa efficacia dalla pubblicità e dai mass media. Il cibo diventa un nemico da non sottovalutare, da osservare con estrema attenzione, da temere o almeno guardare con sospetto, talvolta rappresentato da ambigui rettili come la lucertola e il serpente. L’uomo e la donna, sballottati in un vortice di informazione/disinformazione si aggrappano a dettagli inutili che non li rappresentano, mettendo così a nudo le proprie paure. Immuni da questa inesorabile trappola psicologica gli insetti, eleganti nel rispondere al loro imperativo biologico, si curano della sopravvivenza e poco altro, concedendosi un equilibrio invidiabile. Il loro tempo è scandito da operazioni lente e precise, fondamentali ma rilassate. Da un punto di vista  pittorico Fernanda realizza le sue tele con grande perizia per quanto riguarda il tratto e il colore. Quasi grafica cartellonistica in alcuni tratti, purezza di linee e masse definite grazie alle nette e sature campiture del colore in un’alternanza di tonalità fredde e calde. Sono proprio le masse di colore a definire gli spazi dell’umano, e il tratto gentile da illustratrice ad ammorbidire gli spigoli, a volgerli addirittura in curve.Echi della Belle Epoque e dell’Art Nouveau sono rintracciabili nelle tele composite tricrome.Le figure femminili richiamano le muse di Mucha e i manifesti teatrali delle pieces di Sarah Bernhardt. E come nelle seducenti donne dipinte da Audrey Beardsley anche in Fernanda Sanna ritroviamo il gustoper l’espressione sfuggente e misteriosa, che esercita in chi osserva un’attrazione che è fascino e pericolo insieme.

“Sonia FlorisIter”

Attraverso la non consueta tecnica della pittura con l’areografo, Sonia Floris traccia il suo Iter personale, ponendo al centro della ricerca il corpo umano e la comunicazione. Sancta sanctorum delle emozioni, di volta in volta ambiguo oggetto del desiderio e tempio da onorare o distruggere, il corpo dipinto assume molteplici significati, lineamenti forti e ben definiti, evidenzia i contrasti e gli opposti della vita: bene e male, tentazione e repulsione in un gioco di linee nette dove il bianco e il nero tracciano i confini, relegando il grigio e le sfumature in secondo piano, come in un limbo. La sua opera palesa molteplici influenze che vanno dal gusto per la grafica e l’illustrazione fino all’amore per i materiali e certa pittura materica. Nei lavori eseguiti con l’areografo metafisica e surrealismo si sposano con simboli e geometrie capaci di definire gli spazi e i tempi narrativi, di racchiudere significati personali e profondi che l’artista lascia appena intravedere e dove il corpo femminile è elemento portante della narrazione. Sonia Floris è cosmopolita, l’esperienza maturata in America fa emergere elementi della cultura africana, della street art, della performance vissuta come momento artistico fondamentale, come processo dinamico da condividere con un pubblico chiamato in causa e mai solo spettatore passivo.  Da qui deriva il suo spiccato interesse verso il corpo inteso come oggetto/soggetto narrante, come tela su cui raccontare storie, visioni e allegorie con la certezza di un forte impatto su chi osserva. La passione per la body painting non si limita all’aspetto spettacolare e alla mera applicazione della tecnica, bensì ad un’indagine sulla persona scelta per la performance e lo studio attento per una creazione che sia frutto di mediazione tra la sensibilità dell’artista ma anche delle caratteristiche espressive dei modelli. Una strada ancora in salita in Italia per questa forma d’arte, ostacolata spesso da pregiudizi e polemiche ma che è capace di suscitare emozioni quasi primitive e risvegliare un richiamo ancestrale verso la forma e la decorazione rituale del corpo che l’uomo moderno ha imprigionato sotto stratigrafie di regole e convenzioni. Proprio con la semplicità di un gesto compiuto con un significato preciso e riconoscibile Sonia dipinge i corpi e sui corpi, tracciando un iter personale, fatto di suggestioni e richiami al quotidiano, scava nel profondo dell’anima in cerca della soluzione al mistero partendo dalla superficie. Oscar Wilde diceva che “non c’è niente di più profondo della nostra epidermide”.

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